La caratura emotiva e storica di "Una tomba per le lucciole" pareva la giusta occasione per consigliare un capolavoro poco noto in Italia che ha tra i suoi meriti quello di aver rappresentato, depurate da ogni retorica o autocompiacimento e sotto forma di cartone animato, le conseguenze collaterali della guerra e della malvagità all'interno di una famiglia, di un popolo e di un’intera nazione. Il miracolo porta la firma di Isao Takahata e il timbro dello Studio Ghibli, anche se la storia è ispirata al romanzo –si dice- biografico di Nosaka Akiyuko, il quale perse la sorella proprio durante i duri anni della Seconda Guerra Mondiale.
Non tragga in inganno l'età della pellicola: un monito così commosso, lacerante, insostenibile contro l'odio e l'egoismo non potrebbe risultare più attuale in altre epoche diverse dalla nostra, adagiata sui pacifici accordi di un'unione continentale che, tanto per dirne una, si dichiara (implicitamente) disinteressata alla sorte di popoli meno fortunati. E nemmeno distragga la (peraltro mai ostentata) storicizzazione della vicenda: nel non dare un volto o un nome al nemico, né un preciso tempo all'azione (se non sotto forma di epitaffio), Takahata suggerisce l'universalità del tema trattato, le sue infinite declinazioni in ogni ambito storico o geografico. Non è infatti un film che parla della Seconda Guerra Mondiale in senso stretto Una tomba per le lucciole: a differenza di quasi tutti i film-memoriale sulla guerra o sugli olocausti, contestualizzati tramite precise coordinate politiche (si pensi solo a un "Schindler’s List"), quello in questione estrapola la vicenda dalla sua sistemazione cronologica per (ri)collocarla idealmente sul piano di un (purtroppo) perenne presente.
Il colpo di genio di un'opera formalmente impareggiabile risiede nella lucidità e nel trasporto con cui descrive il tentativo dei protagonisti di sfuggire al virale propagarsi della povertà (materiale o morale che sia), rifugiandosi in una piccola grotta nei pressi di uno stagno. Qui vivono in simbiosi con una natura malickiana che lentamente si spegne, schiudendo l'illuminante metafora del titolo. D'altra parte la colpa degli invasori non è (solo) quella di aver raso al suolo le amene località bucoliche in cui i nostri piccoli protagonisti vivevano, ma quella ben più aberrante di aver desertificato il tessuto etico, morale e sociale di quei luoghi.
L'individualismo sfrontato e atavico della comunità, palesatosi in seguito alla debilitante carenza di cibo, ha inaridito le energie di un popolo che si scoprì in lotta in primo luogo contro il proprio vicino. Oltre alle scioccanti immagini che nulla risparmiano allo spettatore giovane cui l’opera è in primo luogo indirizzata (la scena della madre bendata e grondante sangue, poi lasciata in pasto ai vermi, è in assoluto una delle immagini più disturbanti mai apparse in un film), è proprio questo contesto umanamente infernale a rendere ancor più deprimente la miseria a cui Seita e Setsuko sono condannati. E non può sfuggire tale feroce accusa ad un doloroso (ma necessario) processo di attualizzazione, d'altronde troppo spesso all'uomo medio poco importa se il proprio benessere passa attraverso le privazioni dei meno abbienti, anche qualora dovessero essere i nostri più prossimi concittadini (figuriamoci le "distanti" comunità d’oltremare).
Impossibile è in ogni caso descrivere a parole la potenza delle immagini disperate e liriche di questo prezioso capolavoro. Basti brevemente richiamare l’inarrivabile epilogo, quando vediamo gli spiriti dei due constatare come la tragedia abbia fatto il suo corso spalancando a noi tutti i cancelli della modernità: oltre alla inevitabile commozione del momento, non è possibile evitare di pensare a come le nostre condizioni di relativa spensieratezza siano state costruite su secoli di violenza e collasso.
Il ruolo della memoria, sdoganato in occasione di liberatori anniversari o tristi ricorrenze, gioca (o almeno dovrebbe) il ruolo di monito per le nostre generazioni, affinché –a sentire i più ottimisti- crimini commessi contro l'umanità in passato non vengano più perpetrati in un futuro votato alla conoscenza e al rispetto. Sarebbe tuttavia disonesto più che idealista rivangare le passate colpe senza realizzare che le tragedie dell'Olocausto e le persecuzioni dei tempi andati altro non sono che le medesime situazioni che si ripropongono oggi, ora documentati dalle cineprese dei notiziari ora occultati in nome di interessi altri. Se risulta quindi insensato supporre che le tragedie del secolo scorso abbiano impartito una qualsivoglia forma di insegnamento concreto, molto più utile, per quanto cinico, è allora far almeno comprendere attraverso opere come quella di Isao Takahata che fare del male agli altri distrugge vite innocenti, ma impoverisce anche chi lo scatena.
Ivan Barbieri
___________________________________________________________________________________
CORSO DI CRITICA E GIORNALISMO
CINEMATOGRAFICO