La pittura del dolore e della gioia di vivere, la regista Julie Taymor sulla scia dei colori di Frida Kahlo

A chi, in vita sua, non è mai capitato di vedere un quadro con un particolarissimo soggetto dal "monociglio"? Quella donna dipinta è Frida; l’autrice del dipinto è sempre lei: Frida Kahlo. E’ un nome importante nel mondo dell’arte figurativa perché ha innovato e rivoluzionato la pittura del Novecento con il suo modo spregiudicato e anticonformista di pensare e di fare arte.
Non è un caso che la pittrice abbia ispirato un paio di registi e scrittori, i quali hanno voluto fare della sua vita una rivisitazione romanzata da diffondere a chi (come me fino a qualche anno fa) ancora non ha avuto l’occasione di conoscerla.
Il film cui sono debitrice è Frida girato nel 2002 da Julie Taymor (stessa regista di Across The Universe uscito del 2007).

Adattamento cinematografico del libro Frida: A Biography of Frida Kahlo di Hayden Herrera, la pellicola scopre, man mano, un brillante cast che vede, nei non semplici ruoli di protagonisti, Salma Hayek  (proveniente dallo stesso Messico della pittrice) e Alfred Molina, nella parte di Diego Rivera, marito di Frida e celebre pittore di murales comunisti negli anni della rivoluzione messicana; ma anche Antonio Banderas, l’italiana Valeria Golino, Edward Norton, Geoffrey Rush.
Il film si apre in flashback: Frida, a pochi giorni dalla morte, rivede la sua vita.

In circa due ore di pellicola, la Taymor riesce sapientemente a fare una sintesi di 47 anni di vita, selezionandone e sottolineandone gli aspetti più significativi: già figlia d’arte (il padre dipingeva sperando di ricavare un guadagno sufficiente per la famiglia), Frida, fin da ragazza, mostra tendenze bisessuali; la sua ancor giovane vita viene poi segnata da un grave incidente che le causa undici fratture alla gamba e al piede, compromettendo inevitabilmente anche la schiena, e costringendola a mesi di infermità nel letto di casa, oltre che a varie operazioni chirurgiche nel corso degli anni.
Quella dell’incidente è la scena chiave del film: girata a rallentatore, è priva di qualsiasi sottofondo musicale ma è scandita soltanto, all’inizio, dal clacson del pullman. Poi lo scontro decisivo con il secondo pullman, i corpi che sbattono tra di loro, le voci di confusione, i vetri che si frantumano, le persone a terra, il corrimano che si stacca e trapassa Frida dai fianchi, uscendo dalla vagina. Infine, la ragazza priva di sensi, bagnata di sangue, mentre la polvere d’oro che prima apparteneva a un passeggero si posa addosso a un corpo rotto per sempre e che la futura pittrice comincerà a vedere come estraneo e non più suo.
In questa rallentata confusione, certamente la regista offre il tempo per una totale immedesimazione.
Subito dopo l’incidente, molto curiosa è la scena in cui degli sugar skulls (teschi di zucchero, simboli celebrativi della festa messicana dei morti) si animano, assumendo sembianze umane. Questo inusuale e originale intermezzo scenico, come tanti altri nel corso del film, viene inserito tra una normale scena di vita e l’altra, pur essendo fuori dal tempo e dallo spazio della narrazione perchè è dentro la psicologia della pittrice, per mostrare quelle nuove ombre che iniziano a popolare la sua mente e che la tormenteranno per tutta la vita.
Frida trova consolazione e sfogo alle continue sofferenze fisiche nella tela e nei colori che le vengono regalati dai genitori: stesa sulla schiena nel letto di casa per mesi, incomincia a realizzare dipinti, oggi famosissimi. Il suo primo capolavoro è il ritratto che realizza di se stessa, guardandosi riflessa nello specchio appeso al soffitto. (Autoritratto, 1926).
Così prende avvio una lunga serie di opere che Frida, ormai pittrice a tutti gli effetti, decide di far vedere a Diego Rivera. Il loro si rivela un felice incontro, non solo perché Diego si mostra entusiasta di questo modo originale e rivoluzionario di dipingere, fatto di sincerità, di sofferenza e di accesi colori propri della terra messicana (Molina e la Hayek recitano rispettivamente queste battute:“-E’ un ottimo lavoro. Hai un vero talento. – Ma no, non ti ho chiesto di farmi i complimenti. Voglio una critica seria. – Ma io sono sincero: questi dipinti sono molto originali. Non hanno i soliti trucchi.”), ma anche perché il pittore finisce per innamorarsi di una donna che, come parlano gli stessi quadri, porta negli occhi uno spirito anticonformista, una forza, una determinazione e un’auto-ironia uniche. (“Al medico ho detto che è stata l’asta a farmi perdere la verginità”).

Il tutto è incorniciato da sottofondi musicali di vivaci arpeggi di chitarra, i quali fanno da colonna sonora anche nei momenti più tristi, spesso accompagnati da una graffiante voce femminile su note che riproducono le tipiche ballate messicane.
Saggia la decisione della Taymor di non appiattire la drammaticità del film scegliendo musiche spente e monotone, come sembrerebbe più ovvio; la predilezione per sottofondi energici deriva senza dubbio dalla volontà registica di mettere un accento sulla personalità di Frida che si mantiene pazientemente tenace, nonostante le numerose delusioni sofferte per i continui tradimenti di Diego con altre donne, e infine anche con sua sorella (dopodichè i due si separano decidendo di vivere in case separate: “-Ci sono stati due brutti incidenti nella mia vita, Diego. Quell’autobus, e tu. Tu sei stato di gran lunga il peggiore”) o anche per l’aborto spontaneo a causa del suo corpo troppo fragile e lesionato da reggere una gravidanza; quest’ultimo duro colpo la segna ancora (per tutta la vita Frida conserverà il desiderio di avere figli), così realizza Henry Ford Hospital nel 1932, un dipinto carico di un abbagliante rosso che tinge gran parte delle scene del film.

Se tutti i personaggi attorno alla pittrice vestono abiti scuri o opachi, Frida, invece, spicca tra tutti indossando i colori accesi della sua terra natia. Non solo il famoso "monociglio" che poi ne è diventato il tratto caratteristico e i capelli lunghi spesso raccolti in particolari trecce, ma anche abiti che alternano il dorato con il rosso.
La Taymor fonde insieme i colori, gli arpeggi di chitarra, il comunismo e l’arte in un’unica coinvolgente scena di tango tra la fotografa Tina Modotti (Ashley Judd)  e Frida, nel salotto di casa della prima. Forse spinta dai numerosi tradimenti di Diego, Frida intrattiene relazioni amorose con persone di ambo i sessi (piena di drammaticità è la scena dove la Hayek si taglia i capelli, con rabbia per il marito, davanti allo specchio, ispirandosi, la regista, all’ Autoritratto con capelli tagliati, 1940), tra le quali il poeta surrealista Andrè Breton e il filosofo e esule russo Leon Trotsky (un Geoffrey Rush  irriconoscibile per i baffi, il pizzetto e i capelli bianchi). 

Spettacolare il panorama di ziqqurat dove si trovano a recitare la Hayek e Rush (“-Frida, come ti sei fatta male? –Ah, ormai non te lo saprei più dire…mi hanno cucita e ricucita, rotta e rattoppata tante di quelle volte…mi sento come un mosaico”).
Successivamente, Frida e Diego divorziano, anche se alla fine ritornano insieme, incapaci di vivere l’uno senza l’altra, nonostante tutto.
Intanto le condizioni fisiche della pittrice col tempo peggiorano e la gamba destra le viene amputata.
Un anno prima di morire, vede esaudirsi il desiderio di una mostra dedicata ai suoi dipinti a Città del Messico. Nel film, è Diego che vi si reca al  posto della moglie, costretta a stare nel letto: “- Ma io voglio parlare di Frida non come marito, ma come artista ed estimatore: la sua opera è aspra e tenera, dura come l’acciaio, delicata come ali di farfalla, gentile come un sorriso e crudele come l’amarezza della vita. E io non credo che ci siano state donne prima di lei che abbiano infuso una poesia così straziante sulla terra.”.
Qui il flashback si chiude: la Frida che all’inizio rivedeva la sua vita, ritorna al presente.
Le parole con cui si conclude il film sono le ultime parole del diario: “I hope the exit is joyful and I hope never to return”. (“Spero che la dipartita sia piacevole e spero di non tornare mai più”).
Un lavoro (capolavoro, azzarderei) che non ha lasciato assolutamente indifferente la critica; diversi sono stati i riconoscimenti assegnati: Premio Oscar nel 2003 per il miglior trucco e la miglior colonna sonora e Nomination come migliore attrice protagonista a Salma Hayek.
L’infiammata Julie Taymor crea una pellicola di classe da cui si può solo attingere coraggio, forza, amore per la “vida” e per l’arte, e nel frattempo ci si emoziona, ci si arrabbia, si ride e ci si lascia trasportare dalle corde di una chitarra quasi sempre presente.

Un film così sensualmente femminile che riesce a far innamorare chiunque: donne, e uomini.

Ilaria Mennuni






Frida
Regia: Julie Taymor
Cast: Salma Hayek, Alfred Molina, Geoffrey Rush,
Antonio Banderas, Valeria Golino
Produzione: USA, 2002
Durata: 120 min.
Critica
Successivo
« Precedente
Precedente
Successivo »