"Collateral Beauty": una consapevolezza che sarebbe stato meglio solo suggerire

La banalità del bene. Non come la si intende di solito, cioè che il bene non si può non farlo, ma la banalità della sua rappresentazione, l’ovvio che si manifesta proprio quando si vuole essere originali, costruendo una storia che sembra scritta di fretta solo per arrivare in sala nel periodo natalizio (da noi è uscito il 4 gennaio, ma  il trailer ha imperversato parecchio in tv!).
Ci sono vita e morte, amicizia, amore e dolore, sogno e realtà, solitudine, depressione e  disperazione,  lutto, caduta, solidarietà, risalita e non dimentichiamo qualche massima filosofica dispensata con nonchalance e dimenticata all’uscita dal cinema. Il tutto in novantasette minuti che vorremmo scorressero più piacevolmente di così.
Per una narrazione di questo tipo un cast del tutto sprecato, che va da Helen Mirren a Edward Norton, da Michael Peña e Naomie Harris, e il protagonista Will Smith. Il  regista è David Frankel che aveva già diretto Il diavolo veste Prada e Il matrimonio che vorrei. Questa  sua ultima storia sembra iniziare proprio là dove terminava Il matrimonio che vorrei, film delizioso di indagine sulle diverse psicologie maschile e femminile. C’era una coppia formata da Meryl Streep e Tommy Lee Jones che andava in terapia per ritrovare l’intimità perduta dopo decenni di matrimonio; il loro approccio al cambiamento era pieno di humour e realismo: il massimo dell’apertura per lei, e delle resistenze per lui. Il finale però ci aveva lasciati alquanto perplessi, per un  happy end a dir poco facile ed eccessivo.
Il disagio invece qui non ci lascia un istante. Howard (Will Smith) è il dirigente di un’agenzia pubblicitaria d’assalto che nell’incipit parla ai suoi dipendenti come un guru, imbastendo il primo discorso new-age di questa narrazione, semplicistico e disarmante.  Tre anni dopo (sullo schermo appare proprio la scritta “tre anni dopo” come nelle più ingenue rese temporali), Howard non è più lui. E’ depresso, scrive lettere ad entità astratte (e le spedisce, persino), che sono l’Amore, il Tempo e la Morte,  percorre i viali newyorkesi contromano a tutta  velocità.
L’amico e socio in affari (Whit-Norton), insieme a due colleghi, ha un’idea “geniale” per risollevarlo da questa condizione di cupezza: assoldare un trio di attori un po’ sfigatelli per far interpretare loro le parti di Amore Tempo e Morte e farli dialogare con lui. Oddio: si prova imbarazzo persino a scriverne! Così sei persone si trovano ad interagire tra loro e ciascuna di loro con Howard.
All'interno di questo gruppo si delineano tre coppie con le relative complicità. Il collega di Howard, disperato per la grave malattia ancora tenuta segreta, e la Morte (un’anziana vanesia, egocentrica, capace poi magicamente di cogliere e accogliere la sofferenza nell'altro); la collega che vagheggia una maternità tardiva s'incontra con il Tempo,  impersonato da un adolescente nero che le fa da figlio, dall'aspetto un po’ perso, ma saggio, oltre modo; il belloccio co-protagonista (Norton)  ovviamente non può che intendersela con l’Amore,  tra i tre attori quella più affascinante.
Ognuno dovrebbe imparare da questa avventura la lezione che cambia la vita e ciò avviene, ma in maniera poco credibile per l’artificio delle intese tra i personaggi ed una  sfacciata simmetria. Howard stesso riuscirà a riemergere dal dolore e ce lo aspettiamo, naturalmente, è solo questione di tempo, appunto.  Ma la repentinità della presa di coscienza non commuove e non convince.
A mano a mano che ci avviciniamo allo scioglimento della vicenda le luci natalizie e la neve aumentano, la nostra distanza anche. C’è una sorpresa finale, a dire il vero, che stupisce chi non l’ha intuita prima e potrebbe farci riconciliare con l’insulsaggine che l’ha preceduta, ma anche questa è troppo ricercata. Insomma, il difetto principale del film sta proprio nella fase di progettazione, in una scrittura che mirava alla commedia ben costruita, ma si è fatta prendere la mano dalla razionalità, lasciando fuori ogni sfumatura e quel briciolo di imprevisto che appartiene alla vita vera; si sa, se  la commedia si discosta esageratamente dal quotidiano si fa presto noiosa.
Ottima, nonostante tutto, la recitazione degli attori che si muovono sulla scena a loro agio come stessero in un film scritto magistralmente per loro.
E cosa c’entra poi la bellezza collaterale? E’ niente meno che il legame profondo con tutte le cose, quel qui e ora che tutti rincorriamo e non riusciamo mai a fare nostro come vorremmo. Quello che, per essere trasmesso al pubblico e rimanere almeno un po’ nelle coscienze e nel ricordo, avrebbe avuto bisogno di un altro film. In cui la bellezza collaterale andrebbe forse suggerita e non declamata con tanta sicurezza.

Margherita Fratantonio





Collateral beauty

Regia: Daniel Frankel
Interpreti: Will Smith, Edward Norton, Keira Knightley, Kate Winslet, Helen Mirren, Naomie Harris, Michael Peña, Enrique Murciano, Kylie Rogers
Produzione: PalmStar Media, Likely Story, Anonymous
Durata: 97’
Distribuzione: Warner Bros. Italia





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stilista e giornalista di moda


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