"È solo la fine del mondo": le ultime parole che non ti ho detto

Figlio gay torna a casa dopo molti anni per annunciare la sua imminente morte. Diciamo che il tema è stato abbondantemente sfruttato negli ultimi trent’anni, anche se in realtà non tanto al cinema quanto in televisione, da Una gelata precoce e In the gloaming in giù. Ma al di là dell'argomento gay di versioni rivedute e corrette della parabola del figliol prodigo, a partire dalla Bibbia, è piena la letteratura (e di conseguenza pure la settima arte), fino al bellissimo e recente romanzo di Marilynne Robinson, Casa, vincitore del National Book Award, nel quale un figlio e fratello, scomparso dalle vite del padre e della sorella, Glory, torna dopo un ventennio nella provincia americana dai rigurgiti spirituali degli anni Cinquanta. Dopo il grande successo di critica con Mommy, l’enfant prodige Xavier Dolan torna dietro la macchina da presa con l’adattamento di un testo teatrale di Jean-Luc Lagarce, morto di AIDS nel 1995: ed è la prima volta che il giovane e acclamato regista canadese si confronta con una produzione di grandi nomi internazionali come Marion Cotillard, Lea Seydoux e Vincent Cassel. Con Nathalie Baye, invece, il ventisettenne cineasta di Montréal aveva già lavorato, in Laurence Anyways. Per ogni giovane artista di cinema il passaggio dalla propria nicchia a un profilo più internazionale è da considerarsi sempre molto delicato, perché rischia di omologarsi, di perdere la mano e quello stile personale che lo ha imposto nel nuovo panorama cinematografico: colpa in qualche modo di un diverso modo di accostarsi alla produzione e alla distribuzione dell’opera. E per Xavier Dolan, che ha dimostrato inventiva, intelligenza e sensibilità nelle sue opere realizzate fra i 18 e i 24 anni, questo discorso vale ancor di più. Pertanto dopo aver vinto il Gran Premio all’ultimo festival di Cannes, dove già si era imposto in un modo o nell’altro con i suoi film precedenti, Dolan approda nelle nostre sale – con distribuzione Lucky Red – anche con È solo la fine del mondo, pellicola che se fosse stata realizzata da chiunque altro avrebbe senza dubbio avuto un riscontro maggiore, ma trattandosi di lui, che ha già sorpreso non poco, soprattutto per il rapporto tra le sue opere e l’età alle quali le ha realizzate, ha lasciato fredda la critica, nonostante al tempo stesso solo lui in questo momento storico possa riuscire a non venir fuori con le ossa rotte da un dramma da camera tutto in primissimo piano sui cinque protagonisti. Sostanzialmente la pellicola piace, ma resta fredda, non sembra arrivare del tutto, non solo perché meno visionaria delle altre, pur non perdendo i peculiari tratti nevrotici e le ingenuità giovanili, che comunque rimangono, nonostante l’essere enfant prodige, e che anzi forse escono più allo scoperto ora di quanto non lo fossero nelle pellicole precedenti succitate di altri autori sul medesimo argomento, forse perché molto più semplici e con meno velleità intellettuali, forse perché – come dicevamo – essendo il più delle volte realizzate per la tv fungevano in maniera molto più diretta allo scopo. Bastavano un po’ di bravi attori e qualche nota di regia e di scrittura al punto giusto e il gioco era fatto.
Eppure tutto ciò non manca in questo film, che probabilmente non si sarebbe potuto dirigere diversamente. Che sembra perfetto, ma qualcosa stona, qualcosa sfugge, qualcosa non arriva. Ti lascia freddo e distaccato, e un film con tutto il dolore che racconta non dovrebbe apparire così indifferente.
Eppure – la medesima congiunzione del passaggio precedente è d’obbligo - la sensibilità con la quale il giovane Dolan descrive il dolore di uno scrittore tornato a casa per dire alla sua famiglia che non vede da dodici anni che sta per morire possiede dentro di sé una costruzione di sentimenti, giocati al tempo stesso in trattenuta e in esplosione, molto forti e perfettamente congegnati attraverso il canonico utilizzo del dramma da camera – è pur sempre un gruppo di famiglia in un interno quello del quale si sta parlando – e la visionarietà degli spazi esterni affidati soprattutto alla chiave della memoria e del ricordo, espressi attraverso campi lunghi e il riuso di una colonna sonora fatta di notissime canzoni popolari di qualche decennio fa dove riemerge quell’elemento stroboscopico tipico di Mommy.
Louis, il protagonista, è un ragazzo sobrio e posato e deve fare i conti con il non detto del suo passato, con dei parenti alquanto ingombranti: una sorella che ha lasciato bambina, e che ora non sembra aver trovato un modo per diventare adulta, un fratello maggiore che pare non capire niente e nessuno, sembra molto lontano e soprattutto vive con sofferenza le proprie incapacità e la propria irascibilità, una madre sopra le righe, fuori come dentro, che però è in fondo pur sempre una madre, egoista, ma madre. L’unica che sembra chiedere perdono e pietà è la moglie del fratello, che pare sciocca, stupida e ignorante, ma ha quello sguardo (che la Cotillard è riuscito a creare in un modo poco descrivibile sulla carta) che chiede e concede amore e comprensione. E soprattutto capisce. Capisce in fondo cosa Louis è venuto a fare. Ma, se è di certo la prima, è davvero la sola ad aver capito?

Erminio Fischetti







Juste la fin du monde
È solo la fine del mondo
Regia: Xavier Dolan
Interpreti: Marion Cotillard, Nathalie Baye, Lea Seydoux, Vincent Cassel, Gaspard Ulliel
Produzione: Canada, Francia, 2016
Durata: 95'
Distribuzione: Lucky Red, 7 dicembre 2016
Voto: 3,5/5
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