Fra il 1988 e il 1992 c’è stata una guerra civile che ha distrutto e piegato ben più di un popolo: quella fra la Georgia e la Repubblica separatista di Abcasia. Da oltre un secolo, in quelle campagne, viveva un gruppo stanziale di estoni. Non facevano del male a nessuno, ma sono stati costretti a tornare in Estonia. Non tutti però volevano farlo. In quel contesto tanta gente è morta, famiglie intere se ne sono andate via, ma c’è stato anche chi è rimasto. Solo. Sullo sfondo di case in rovina e di un territorio sempre più accidentato non per la sua conformazione geografica, ma per lo spirito che non c’era perché c’era solo dolore. Ivo ha perso un figlio, e la nipote, giovane e bella, è andata a vivere in Estonia. L’uomo, ormai anziano, non per questo è diventato inumano: davanti a casa sua c’è un conflitto a fuoco fra le due fazioni avversarie, una delle quali dovrebbe essere il nemico, che ha distrutto la quiete della sua famiglia. Muoiono tutti, sopravvive un soldato di una e quello dell’altra. Inizialmente lui però credeva che quello dell’altra fosse morto, ma poi, mentre con il suo amico Margus stanno seppellendo i corpi, l’uomo scopre che uno di loro è vivo. Ivo decide di portare a casa anche quel ragazzo e curarlo. Nella stanza accanto all’altro soldato. Quello della fazione avversa. I due ragazzi si riprendono. Si odiano. Ma forse non sanno nemmeno loro perché. Ivo però è uomo anziano, uomo di una volta, non ci sono differenze in casa sua: “In casa mia non si ammazza nessuno se non sono io a deciderlo”, dice più o meno con queste parole. Come dargli torto, con tutto quell’odio senza senso che serpeggia in casa sua in quel momento. I due soldati così piano piano cominciano a tollerarsi fino a iniziare a parlare, poi a simpatizzare, fino a diventare amici. In casa di Ivo, in quell’uomo straordinario, in quel vecchio saggio, buono, tutto d’un pezzo con la sua dignità e un coraggio che non hanno eguali, si compie un piccolo miracolo. Un messaggio straordinario, che è la semplicità e la straordinarietà stessa di quest’opera che riesce ad arrivare dritta laddove deve arrivare. Con un’asciuttezza difficilmente concepibile, con un discorso che rischierebbe di cedere facilmente nelle maglie della retorica più spicciola. Zaza Urushadze compie così un miracolo: parla di etica, di moralità, ma soprattutto di un umanesimo carico di purezza. Non si capisce bene come ci riesca, lo spettatore sa solo che è lì con tutta la freschezza di un cinema come dovrebbe essere fatto. Tangerines, letteralmente mandarini, per il luogo dove si consuma la vicenda, pieno di campi del buonissimo frutto arancione, è stato candidato al premio Oscar come miglior film straniero in un’annata davvero molto densa per la categoria (Ida, Leviathan, Storie pazzesche e il minore Timbuktu) e avrebbe meritato certo più di Ida, al Golden Globe, ha ricevuto tutti i riscontri possibili dai festival a cui ha partecipato, dai critici blasonati che lo hanno visto, è stato recentemente designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
È un film che non solo è bellissimo sotto il suo aspetto contenutistico, nella sua asciuttezza, ma anche nella sua confezione, che comprende anche la durata, per come utilizza una derivazione teatrale perfettamente costruita sulla forza del mezzo di cui usufruisce. Soprattutto però per tutti i quattro interpreti che vanno in scena, in particolare Lembit Ulfsak (attore estone di fama teatrale), che tiene perfettamente nel corpo e nello spirito, con sublime malinconia, la complessità del discorso storico, sociale, morale, psicologico, etico, umano. Da far vedere ai bambini dalla prima età in cui sono in grado di capire ai grandi fino al loro ultimo respiro.
Erminio Fischetti
Tangerines – Mandarini
Regia: Zaza Urushadze
Interpreti: Lembit Ulfsak, Giorgi Nakashidze, Elmo Nuganen, Misha Meskhi
Produzione: Estonia/Georgia, 2013
Durata: 89’
Distribuzione italiana: PFA, 26 maggio 2016
Voto: 5/5