"L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo" di Jay Roach

La dignità. Potrebbe essere l’assioma che definisce Dalton Trumbo. Sceneggiatore di Hollywood di grande successo negli anni Quaranta fino a quando non cadde vittima dell’onta della blacklist del senatore repubblicano Joseph McCarthy, alcolizzato e paranoico individuo che nella sua breve vita (morto di cirrosi epatica) si è reso noto per distruggere i comunisti, che vedeva ovunque. Bastava che ci fosse un dubbio, una illazione, una calunnia e la sua commissione, come una vera e propria caccia alle streghe, calava sulla gente come una scure. Specialmente nel mondo intellettuale e cinematografico. Quello di Dalton Trumbo è l’esempio più illustre. Lui, però, a differenza di molti altri, l’esempio più noto è quello di Elia Kazan, non accusò altri colleghi per liberarsi dalle accuse. È stato coerente e intransigente, forte e leale. Grazie anche all’appoggio della moglie fedele che tutti vorrebbero, Cleo, e dei suoi tre figli, Christopher, Nikola e Mitzi. È stato in galera per essere stato iscritto al partito comunista, ma probabilmente semplicemente per non aver avallato un sistema di paranoia e ipocrisia mantenuto dalle lucenti facce di John Wayne, Ginger Rogers (eppure lei ha vinto un Oscar, l’unico della sua carriera, grazie alla di lui sceneggiatura di Kitty Foyle, ragazza innamorata di quell’altro ingrato di Sam Wood) e dalla giornalista scandalistica per eccellenza, Hedda Hopper. Il film che ne ha tratto Jay Roach dal libro omonimo di Bruce Cook edito da Rizzoli e dalla sceneggiatura di John McNamara ha l’impronta precisa di un biopic della HBO, e probabilmente era quella l’origine, anche perché il regista si è reso noto negli anni con una serie di film politici come Recount (sul conteggio dei voti in Florida delle elezioni presidenziali del 2000 fra Bush e Gore), Game Change (sulla campagna elettorale a vice-presidente di Sarah Palin nel 2008) e All the Way (che sarà trasmesso sul canale in primavera, tratto dall’ominima piece teatrale, che ha per protagonista come in questo film il grande Bryan Cranston nelle vesti di Lyndon Johnson).

Bello, rigoroso, intransigente come il suo protagonista, L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo costruisce perfettamente lo spaccato della Hollywood di quegli anni, ma soprattutto il clima di paranoia e odio scatenato dalla politica anticomunista del governo statunitense. Trumbo fu ostracizzato. Dopo aver scontato un periodo in prigione fu messo al bando come sceneggiatore. Fu tradito da uno dei suoi migliori amici: Edward G. Robinson. Però era lui che l’America chiamava traditore. Gli fu proibito di lavorare nei grandi circuiti e vendeva le sue sceneggiature sotto pseudonimo, tanto che suoi sono stati gli script di Vacanze romane e The Brave One, i cui crediti furono sostituiti da nomi fittizi. Film per i quali Ian McLellan Hunter e lo sconosciuto Robert Rich, che gli avevano fatto da prestanome (oggetto sin dal titolo di un film degli anni Settanta diretto da Martin Ritt con protagonista un Woody Allen che per una rara volta non si dirige da solo) vinsero l’Oscar per la sceneggiatura al suo posto. Nel secondo caso strappandolo a nomi di un certo spessore, come il Jean – Paul Sartre de Gli orgogliosi e il Cesare Zavattini di Umberto D. Paradossi, violenza psicologica di un mondo allo sbando che ha cercato di distruggere tutta una generazione di intellettuali americani. A dare forza a questo protagonista integerrimo è la bellissima prova di Bryan Cranston, che impersona un uomo umanissimo e ironico capace di sopravvivere con grande senso morale alla sua disgrazia, accompagnato da una moglie, angelo del focolare paziente e perfettamente in grado di sopportare accanto al marito tutte le vessazioni e umiliazioni del tempo, che ha il volto di una Diane Lane in stato di grazia, che viene purtroppo poco utilizzata, salvo farla sorridere a tempo e ricordare al marito che rischia di perderli se continua a lavorare come un matto e a prendere la benzedrina. D’altronde lui era un uomo di quei tempi, e per la famiglia si fa di tutto. E lei lo sa bene. Capisce. Ma lo ama e non vuole che si ammazzi di lavoro. È comprensibile. Poi c’è Helen Mirren che fa la cattivissima Hedda Hopper e muove le labbra impercettibilmente, ha poche pose, ma brilla di luce propria, anche se la candidatura al Golden Globe pare un po’ eccessiva. Mentre quella di lui all’Oscar assolutamente no, anzi quest’anno lui e il Fassbender di Steve Jobs, che raccontano due mondi e due Americhe molto lontane, sono i più bravi. Ma, si sa, Di Caprio deve vincerlo, perché ormai ha una serie di sconfitte al suo arco. Ma questa è un’altra storia. Un’altra storia di come funziona la Hollywood “so white”, ricordando la polemica degli Oscar scatenata giustamente da Spike Lee quest’anno. E i problemi sono alla radice. I problemi di un sistema che non sa essere capace di prendere le sue posizioni ed essere da esempio per la giustizia, l’integrità, la morale e non i moralismi. Solo il tempo ha ridato lustro al nome di Dalton Trumbo con le sceneggiature di Spartacus ed Exodus, grazie anche all’aiuto di Kirk Douglas e Otto Preminger. Il grande attore americano, che ha dato vita a tanti personaggi sullo schermo e che ha da poco compiuto 99 anni, ha così commentato e ricordato, in una recente dichiarazione, la figura di Trumbo, di quel cinema e di quegli anni: “Come attore è facile fare l’eroe; lottiamo contro i cattivi e ci battiamo per la giustizia. Nella vita reale le scelte non sono sempre così semplici. Le liste nere di Hollywood, che sono state ricreate in maniera potente nel film “L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo”, fanno parte di un’epoca che ricordo molto bene. Le scelte erano difficili, le conseguenze dolorose e molto reali. Nel periodo delle liste nere ho avuto amici che sono stati costretti ad esiliare, perché nessuno li faceva lavorare; attori che si sono suicidati dalla disperazione. Lee Grant, mia giovane co-protagonista nel film “Detective Story” (1951), non ha potuto lavorare per quasi dodici anni, dopo essersi rifiutata di testimoniare contro il marito di fronte al Comitato per le Attività Antiamericane.
Fui minacciato di essere additato come comunista e rovinare così la mia carriera, se avessi fatto lavorare in “Spartacus” il mio amico Dalton Trumbo, sceneggiatore proscritto nelle liste nere.
Ci sono momenti in cui bisogna lottare per i propri principi. Sono davvero orgoglioso dei miei colleghi attori che usano la loro influenza pubblica per lottare contro le ingiustizie. A 98 anni ho imparato una lezione dalla storia: spesso si ripete. Spero che “L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo”, importante pellicola, ricordi a tutti noi che le liste nere sono state un periodo terribile per la nostra nazione, ma che possiamo trarne insegnamento in modo che fatti del genere non si ripetano mai più”.
Un film che dà una bella lezione sulla storia del cinema, ma la figura di Dalton Trumbo la sua lezione ce l’ha data: sulla vita e sulla dignità però. Accogliamola con rigore.

Erminio Fischetti



L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo
Trumbo
Regia: Jay Roach
Interpreti: Bryan Cranston, Diane Lane, Helen Mirren, John Goodman, David James Elliott, Louis C.K., Alan Tudyk, Elle Fanning, Roger Bart, Dean O’Gorman
Produzione: USA, 2015
Durata: 124’

Distribuzione italiana: Videa, 11 febbraio 2016
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