Il 15 ottobre, in occasione del primo giorno della rassegna Il tempo dell’uomo, al Museo Interattivo del Cinema di Milano, accennavamo alle belle citazioni che appaiono sul corridoio prima di arrivare in sala. “Al cinema il film è lo stesso, sei tu che sei diverso”, recita la prima e poco più in là: “La storia, da quando c’è il cinema, è un’altra cosa”.
E alla storia l’iniziativa ha dedicato documentari che sono testimonianze davvero preziose del passato milanese. Durante la terza giornata viene offerto un testo filmico di dodici minuti per ritrarre la città che si fa metropoli durante il boom economico (Milano domani di Giorgio Cavedon): l’autostrada, la metropolitana, l’aeroporto della Malpensa, le nuove direttrici che facilitano gli spostamenti. Chi a Milano ci vive riconosce alcuni orrori urbanistici che sono rimasti intatti (purtroppo!), ai quali tanti altri se ne sono aggiunti. “Città senza cimeli”, viene definita nel documentario e, con linguaggio retorico ed incrollabile entusiasmo, si parla di fabbriche che vengono spostate in periferia perché sorga al loro posto “la dimora dell’uomo”. Nessuno evidentemente era sfiorato dal sospetto che quella bruttezza sarebbe rimasta per sempre e che l’occhio volesse almeno un po’ della sua parte. Siamo nel 1960 e la voce commentatrice ci informa che si tratta di opere che sarebbero bastate per mezzo secolo!
Continuando con i grandi fervori, segue Milano o cara di Paolo Pillitteri, sceneggiatura di Carlo Tognoli e Bettino Craxi. I primi due sono stati sindaci della città (il secondo molto più amato del primo), il terzo non ha bisogno di presentazioni. A pochi mesi dalle elezioni del 1963, il filmato non può non avere intenti di propaganda e si vedono tutti. Le prime immagini ritraggono gli immigrati dal Sud e il loro sperdimento (sono passati tre anni da Rocco e suoi fratelli, ne mancano cinque allo splendido romanzo di Giovanni Testori, Il ponte della Ghisolfa). Poi, il partito socialista reso con l’ingenuità di allora, forse anche la sincerità, e un’intervista a Pietro Nenni. Quelle elezioni segnarono la fine del centrismo e se ne può comprendere la passione. Non ci fossero stati in seguitola Milano da bere e il craxismo, si potrebbe guardare il documentario con sguardo più benevolo.
Per fortuna tra i due filmati storici, due lungometraggi leggeri: Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’Oriente di Sylavin Estibal, E se vivessimo tutti insieme di Stèphane Gobelin.Completamente diversi tra loro, ma una comune delicatezza nel trattare temi niente affatto facili.Un insolito naufrago è ambientato nella Striscia di Gaza (miseria, conflitto, pregiudizio), E se vivessimo tutti insieme nel territorio scivolosissimo della vecchiaia, che per fortuna al cinema non è più quel tabù che era prima (impedimenti fisici e mentali, ricatti o indifferenza da parte dei figli, desiderio di una vita decente per gli ultimi anni a venire).
Un evento improvviso cambia tutto nella vita dei personaggi di due storie così lontane. Il naufrago, che è un pescatore arabo fallito, troverà nella sua rete niente di meno che un maiale, l’essere più impuro del mondo e da questo incontro prenderanno il via le avventure . Stringerà accordi d’affari con una giovane .,russa al di là del confine, sarà costretto dai terroristi ad immolarsi per la causa palestinese, fuggirà con la moglie, la sua socia e, inutile dirlo, lo stesso maiale, che da animale immondo troverà un posto nel cuore del pescatore. Il film finisce con una scena di pace impossibile, ma che apre alla speranza, tra tutti i personaggi del film, arabi e israeliani, in una sorta di ballo collettivo con i nemici tra gli amici, e gli amici tra i nemici.
Ma anche i vecchietti di E se vivessimo tutti insieme scoprono di colpo di essere diventati anziani, dalle prime dimenticanze, le manchevolezze del cuore, il senso di solitudine. Dopo i tentennamenti iniziali scelgono la condivisione, e le loro giornate trascorrono tra un disastro e un abbraccio, tra vecchi livori e inevitabile perdono. Non è un capolavoro impedibile del cinema, questo film, ma ha il pregio di uno sguardo disincantato, divertito ed empatico nei confronti di personaggi così strampalati, perché così incredibilmente veri.
Piccola patria di Alessandro Rossetto, opera prima sullo sconfortante degrado della provincia, simbolo dell’Italia intera e dei valori perduti, chiude il penultimo pomeriggio della rassegna, che si concluderà il 5 novembre con un programma altrettanto interessante.
Margherita Fratantonio