Speciale Rassegna Museo del cinema di Milano: Il tempo dell'uomo, lavoro e no


È un piacere andare al Museo Interattivo del Cinema di Milano (MIC), allestito all’interno della vecchia Manifattura Tabacchi. Di fuori la struttura imponente è la stessa; dentro, per raggiungere la sala, si percorre un corridoio che è già l’inizio del museo stesso. Sulla destra pannelli con citazioni filmiche (“Al cinema il film è lo stesso, sei tu che sei diverso”, recita la prima), a sinistra televisori accesi che incuriosiscono non poco.

Ma non abbiamo tempo per visitarlo; lo faremo un’altra volta e ve ne parleremo. Ora c’è la rassegna “Il tempo dell’uomo: lavoro e no”, un ciclo di film di narrazione e documentari. Per Cesare Segre, il cui film La prima neve apre l’iniziativa, non c’è molta differenza tra i due, perché dietro un personaggio, sostiene, c’è sempre una persona. Il tema centrale della rassegna invita a riflettere sull’identificazione del lavoro con la nostra esistenza, del presente o del passato, individuale e collettivo. Un argomento così importante si intreccia inevitabilmente con altri, quali l’emigrazione, l’immigrazione, l’ultima stagione della vita, quella in cui non si lavora più e bisogna inventarsi un’altra identità.

Emigranti è il titolo del documentario iniziale. Dodici minuti in cui il regista Franco Piavoli (autore del più conosciuto Pianeta azzurro) ha ritratto nel 1963 il viaggio dal Sud a Milano, l’arrivo in Stazione Centrale, l’affanno dei cambi per la Germania o la Svizzera, l’abbandono dell’attesa in sala d’aspetto. Non ci sono dialoghi: solo voci umane concitate, incomprensibili, e quelle dell’altoparlante che scandisce un ritmo drammatico nel momento di estrema precarietà degli emigranti.  Tanti volti magri e segnati dalla fatica, ritratti in primi piani e dettagli nel sonno prima dell’arrivo a Milano, nella loro staticità prima della corsa. Il corto ci dimostra come tutti i luoghi comuni del viaggiatore meridionale (dalla valigia di cartone al pasto robusto consumato in treno) erano, ahinoi, durissime realtà.

Al bianco e nero del documento di Piavoli, seguono i colori delle Alpi trentine di Segre, una natura sfacciatamente bella, che sembra voler contenere il dolore dei protagonisti, quasi consolarlo. Ma Dani, fuggito dal Togo e poi dalla Libia, ed ora al lavoro in una baita di montagna come apicoltore, non può dimenticare la morte della moglie dopo la traversata. Tanto da non riuscire ad essere padre della bambina piccola che lei gli ha lasciato, e da non trovare più nella sua passione (la scultura) il modo per dimenticarne, almeno per poco, l’assenza. Neanche per l’undicenne Michele il ricordo del padre può essere archiviato, nelle giornate avventurose della sua giovane età, del suo carattere, ma ancora di più nell’emulazione del coraggio paterno. C’è un Battiston che, a parte il riuscitissimo ruolo di protagonista in Zoran il mio nipote scemo, fa sempre un po’ da spalla: è lo zio disoccupato e inconcludente nella sua vita personale, ma di buon cuore. In generale, si respira un’aria di sana e confortante benevolenza, rispetto all’ambientazione del primo film di Segre, Io sono Li, carica di pregiudizi. Ma il tocco è lo stesso, lo stile anche: i paesaggi (là una Chioggia umida e la laguna, qui la montagna con alberi altissimi da far girare la testa), il piacere delle parlate locali, l’intensità poetica di ogni scena. E forse dove non è riuscita la magia del bosco autunnale, ce la farà la prima neve a sciogliere, se pure nel suo gelo, la durezza di Dani e Michele, a liberare le emozioni fin qui trattenute.

I colori vivi di Cesare Segre lasciano il posto alle luci fredde del penultimo film: A simple life, della  regista cinese Ann Hui: siamo ad Hong Kong che fa da sfondo ai sentimenti di Ah Tao e Roger, uniti da un legame madre-figlio, anche se madre e figlio non sono. Lei è da sessant’anni la domestica di famiglia, lui un produttore abbastanza affermato. Nella prima parte della storia Roger sembra dare per scontata la presenza dell’anziana domestica, che gli prepara pietanze curatissime e lo vizia oltre modo, ma quando lei si ammala e sceglie la casa di riposo, le visite di lui sono sempre più frequenti e calorose. L’intesa si fa perfetta e sorvola le differenze di classe e d’età. Roger Lee,  produttore e sceneggiatore di A simple life,  dice di aver voluto questo film per raccontare la vita della sua cameriera, per rendere omaggio a lei e a tutte le persone che in silenzio hanno dato un contributo notevole a molte famiglie cinesi. Sullo schermo Ann Hui, con la sua modestia e il suo farsi sempre da parte, è un personaggio eroico: di lei si fidano tutti nello squallore del ricovero per anziani, e hanno ragione di farlo, dopo che ha seguito e accudito ben tre generazioni, con saggezza, amore, dedizione. Non si può dire con sacrificio, perché lei non l’ha mai vissuto così, né oggi, né in passato. Una bella narrazione, semplice come dice il titolo, ma carica di affetto, gratitudine, dignità.


L’ultimo documentario della prima giornata: Giallo a Milano, di Sergio Basso (2009) verrà ripetuto il 5 novembre (e fino al 5 novembre si protrarrà la rassegna, tutti i mercoledì, dalle ore 13.00 fino a sera) 


Margherita Fratantonio
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