Il treno va a Mosca è un progetto coraggioso nato dalla scelta inusuale
per due giovani registi di farsi conoscere attraverso un film
documentario, genere che arriva con più difficoltà al grande
pubblico italiano.
Alla
base di questa scelta c’era il progetto in sé. Un progetto che
interessava e che dopo aver visto tutto il materiale ha fatto solo
crescere la voglia di raccontare questo periodo storico. Il film
parte da un archivio ma non lo definiamo un mero documentario, in
quanto la narrazione, così come l’andamento generale sono di
finzione. Ci affascinava raccontare quel mondo comunista, e crediamo
che non era possibile un altro tipo di cinema per raccontarlo. È
stato un bel viaggio, guidati da Sauro che ci ha fatto conoscere chi
ha partecipato con lui al festival per i giovani nel 1957 a Mosca.
Il Documentario da prodotto di nicchia è diventato in Italia un prodotto per il grande pubblico. Anche in seguito alle vittorie di Sacro Gra e Tir a due importanti festival internazionali.
Era
anche l’ora che questo genere acquistasse importanza anche in
Italia! Il pubblico italiano dovrà abituarsi al fatto che ci sono
tanti modi per raccontare. Rosi ha fatto film splendidi nel corso di
questi anni, è un peccato se ne siano accorti solo ora.
Per
tutta la durata del film permane questo senso di comunione,
fratellanza. Perché non si riesce più a essere un popolo che
combatte per i suoi ideali, positivi o negativi che siano.
Si
spera ci saranno di nuovo. Siamo nel pieno di un ciclo di
disillusione. Sono finite le utopie, speriamo ritorneranno un domani.
C’è bisogno di un impeto.
Il
film si conclude con il funerale di Togliatti. Un funerale che è
anche metaforico.
E’
la fine di un mondo. La fine di un’utopia. Doveva finire così, non
c'erano altri modi.
Intervista esclusiva dell'inviata
Giuseppina Genovese
Giuseppina Genovese