Una Gaza diversa, moderna, aperta. Una Gaza affamata di vita, bramosa di speranza e di sogni è la Gaza raccontata in Striplife, documentario in concorso alla 31° edizione del TFF. Una Gaza che sorprende, stupisce per la sua voglia di andare oltre i pregiudizi e oltre le barriere. Non solo fisiche, ma anche mentali. Gaza non è solo bombe, guerre, ostacoli che si possono trovare nelle cose più elementari. Gaza è anche musica rap, happy hour, Iphone. E poi sorrisi, risate, gioia. Gaza è quel campo di calcio che ritorna sempre come un’epifania. Metafora della vita e della voglia di andare avanti. Sempre. Comunque.
È questo il messaggio – positivissimo - che gli autori di Striplife hanno sentito il bisogno di trasmettere. Di raccontare attraverso le immagini piuttosto che le parole. Queste, possiamo ascoltarle direttamente dall loro voci attraverso un’intervista esclusiva rilasciata sulle pagine di Cinemafree. Ai nostri microfoni Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli e Nicola Grignani.
Come nasce il progetto di Striplife?
Facciamo parte di un collettivo di videomakers “Teleimmagini” nato nel 2000 a Bologna, che lavora nell'ambito della comunicazione indipendente. Realizziamo documentari, inchieste, produzioni audio-video per il web e ci occupiamo di eventi e cineforum. Nel corso degli anni abbiamo tenuto dei corsi di formazione e di comunicazione nelle zone in conflitto. Andavamo in questi villaggi e ai più bravi lasciavamo telecamere e altro. Abbiamo creato dei veri e propri laboratori cinema, instaurando diverse collaborazioni con gli operatori dei posti dove andavamo. In particolare con due giovani ventenni ci piaceva intavolare interessanti discussioni riguardanti l’approccio fotografico. Abbiamo deciso di raccontare Gaza, o meglio l’altra faccia di Gaza dopo una serie di sopralluoghi e la felice interazione stabilitasi con la realtà locale. Avevamo la necessità di raccontare quanto visto, vissuto, quella bella accoglienza. Far vedere che Gaza è anche altro. Nonostante tutto.
Avete trovato delle difficoltà, anche di ordine pratico, durante la vostra permanenza a Gaza?
Assolutamente nessun tipo di problema. Anche perché il lavoro di Vittorio Arrigoni ci ha spianato la strada. Lavoro che continua con la Vik di Meri Calvelli, centro italiano di scambi culturali. Tantissimi ricordano Arrigoni e quanto ha fatto a Gaza. Solo il fatto di essere suoi conterranei è stato un ottimo biglietto da visita. E poi il popolo palestinese è molto accogliente, altruista, rispettoso e scinde la questione politica dal singolo individuo. Avrebbero tanti motivi, politicamente parlando, per avercela con noi, e invece non è stato affatto così. Hanno separato noi dal nostro stato. Non hanno avuto astio nei nostri confronti e questo non era scontato.
Cosa vi ha portato a voler raccontare proprio Gaza?
Volevamo affrontare, capire la questione con i nostri occhi. C’era la coscienza di portar fuori una voce, una volontà.
Quello che colpisce in Striplife è questo messaggio ottimista, vitale che viene fuori…
Si, un popolo vivo nonostante le problematiche che vivono quotidianamente, come la mancanza di corrente. La luce lì manca in continuazione. Ci sono persone che vengono mantenute in vita da macchinari, quando salta la luce rischiano davvero di morire. Il ragazzo senza gambe fa parte di un'associazione di operatori video e fotografi. Nonostante la tragedia non lo abbiamo mai visto lamentarsi. Hanno tutti una grandissima dignità. La ragazza giornalista invece appartiene a un ceto alto. Gaza appunto non è solo miseria, abbiamo visitato dei locali che sembrava di stare a Bombay!
Messaggio che non era che il vostro obiettivo finale...
Esatto. Riuscire a dare una vasta gamma di visioni. Un affresco corale di quei posti. Dare un immaginario a chi non c’è mai stato e un volto umano a un posto conosciuto solo per le sue tragedie.
Come è stato lavorare mentre a pochi chilometri di distanza scoppiavano bombe?
Guarda sembrerà quasi paradossale quanto sto per dire, ma alla fine inizi a vivere tutta quella situazione esattamente come la vivono loro. Era ormai diventata un’abitudine.
C’è qualche situazione o persona che avete ripreso ma che poi avete deciso di non inserire nel documentario?
Sì, una poetessa intorno ai 65 anni che aveva perso la figlia ritrovata dopo venti anni. Una donna che nonostante avesse vissuto un'esperienza fortissima, non ha mai perso il sorriso. Una donna che non molla mai. Faceva lo sciopero della fame da otto giorni, l’ha interrotto solo per invitarci a cena. Era molto difficile inserire una figura così ricca e complessa in un documentario di 60 minuti. Crediamo che il suo personaggio avrebbe meritato una maggiore attenzione.
Hanno visto il documentario? Come hanno reagito?
Lo abbiamo fatto vedere premontato. È una cosa che fa parte della nostra etica documentarista. Dopo hanno affermato: “c’è tutto”. È stato davvero molto commovente. Non si aspettavano un risultato così. Non erano abituati a essere descritti in questo modo. Alcuni erano diffidenti, molti giornali avevamo alterato la loro realtà, c’è chi ha scritto che lottavano contro la religione, non è affatto così. Avrebbero potuto avere delle gravi conseguenze in seguito a simili articoli
Su che cosa vi siete concentrati durante la lavorazione?
Nella nostra esigenza condivisa di raccontare una Gaza diversa volevamo concentrarci sulla quotidianità, seguendo un po’ le linee di Suite Habana di Fernando Pérez. Abbiamo cercato di fondere il linguaggio del documentario con quello della fiction. Quella di sceneggiare una giornata tipo mettendo in successione un intero arco narrativo è stata un po’ una scommessa. Il nostro è stato un lavoro collettivo con possibilità di sperimentazione. Direzioni diverse per riuscire a crescere nel linguaggio.
Come avete impostato la sceneggiatura e come avete scelto i personaggi?
Ogni personaggio aveva delle azioni che abbiamo prima scritto e poi girato una volta trovato il posto adeguato. Ci siamo presi un periodo di osservazione per conoscere i personaggi, le loro vite e una volta individuati quelli giusti abbiamo sceneggiato.
Quel campo di calcio che sa tanto di metafora…
Il calcio è un po’ la metafora della vita. Il calciatore che entra nello stadio distrutto, ma subito dopo si mette ad allenare i ragazzini non è che raffigurazione di una rinascita.
Giuseppina Genovese
È questo il messaggio – positivissimo - che gli autori di Striplife hanno sentito il bisogno di trasmettere. Di raccontare attraverso le immagini piuttosto che le parole. Queste, possiamo ascoltarle direttamente dall loro voci attraverso un’intervista esclusiva rilasciata sulle pagine di Cinemafree. Ai nostri microfoni Valeria Testagrossa, Andrea Zambelli e Nicola Grignani.
Come nasce il progetto di Striplife?
Facciamo parte di un collettivo di videomakers “Teleimmagini” nato nel 2000 a Bologna, che lavora nell'ambito della comunicazione indipendente. Realizziamo documentari, inchieste, produzioni audio-video per il web e ci occupiamo di eventi e cineforum. Nel corso degli anni abbiamo tenuto dei corsi di formazione e di comunicazione nelle zone in conflitto. Andavamo in questi villaggi e ai più bravi lasciavamo telecamere e altro. Abbiamo creato dei veri e propri laboratori cinema, instaurando diverse collaborazioni con gli operatori dei posti dove andavamo. In particolare con due giovani ventenni ci piaceva intavolare interessanti discussioni riguardanti l’approccio fotografico. Abbiamo deciso di raccontare Gaza, o meglio l’altra faccia di Gaza dopo una serie di sopralluoghi e la felice interazione stabilitasi con la realtà locale. Avevamo la necessità di raccontare quanto visto, vissuto, quella bella accoglienza. Far vedere che Gaza è anche altro. Nonostante tutto.
Avete trovato delle difficoltà, anche di ordine pratico, durante la vostra permanenza a Gaza?
Assolutamente nessun tipo di problema. Anche perché il lavoro di Vittorio Arrigoni ci ha spianato la strada. Lavoro che continua con la Vik di Meri Calvelli, centro italiano di scambi culturali. Tantissimi ricordano Arrigoni e quanto ha fatto a Gaza. Solo il fatto di essere suoi conterranei è stato un ottimo biglietto da visita. E poi il popolo palestinese è molto accogliente, altruista, rispettoso e scinde la questione politica dal singolo individuo. Avrebbero tanti motivi, politicamente parlando, per avercela con noi, e invece non è stato affatto così. Hanno separato noi dal nostro stato. Non hanno avuto astio nei nostri confronti e questo non era scontato.
Cosa vi ha portato a voler raccontare proprio Gaza?
Volevamo affrontare, capire la questione con i nostri occhi. C’era la coscienza di portar fuori una voce, una volontà.
Quello che colpisce in Striplife è questo messaggio ottimista, vitale che viene fuori…
Si, un popolo vivo nonostante le problematiche che vivono quotidianamente, come la mancanza di corrente. La luce lì manca in continuazione. Ci sono persone che vengono mantenute in vita da macchinari, quando salta la luce rischiano davvero di morire. Il ragazzo senza gambe fa parte di un'associazione di operatori video e fotografi. Nonostante la tragedia non lo abbiamo mai visto lamentarsi. Hanno tutti una grandissima dignità. La ragazza giornalista invece appartiene a un ceto alto. Gaza appunto non è solo miseria, abbiamo visitato dei locali che sembrava di stare a Bombay!
Messaggio che non era che il vostro obiettivo finale...
Esatto. Riuscire a dare una vasta gamma di visioni. Un affresco corale di quei posti. Dare un immaginario a chi non c’è mai stato e un volto umano a un posto conosciuto solo per le sue tragedie.
Come è stato lavorare mentre a pochi chilometri di distanza scoppiavano bombe?
Guarda sembrerà quasi paradossale quanto sto per dire, ma alla fine inizi a vivere tutta quella situazione esattamente come la vivono loro. Era ormai diventata un’abitudine.
C’è qualche situazione o persona che avete ripreso ma che poi avete deciso di non inserire nel documentario?
Sì, una poetessa intorno ai 65 anni che aveva perso la figlia ritrovata dopo venti anni. Una donna che nonostante avesse vissuto un'esperienza fortissima, non ha mai perso il sorriso. Una donna che non molla mai. Faceva lo sciopero della fame da otto giorni, l’ha interrotto solo per invitarci a cena. Era molto difficile inserire una figura così ricca e complessa in un documentario di 60 minuti. Crediamo che il suo personaggio avrebbe meritato una maggiore attenzione.
Hanno visto il documentario? Come hanno reagito?
Lo abbiamo fatto vedere premontato. È una cosa che fa parte della nostra etica documentarista. Dopo hanno affermato: “c’è tutto”. È stato davvero molto commovente. Non si aspettavano un risultato così. Non erano abituati a essere descritti in questo modo. Alcuni erano diffidenti, molti giornali avevamo alterato la loro realtà, c’è chi ha scritto che lottavano contro la religione, non è affatto così. Avrebbero potuto avere delle gravi conseguenze in seguito a simili articoli
Su che cosa vi siete concentrati durante la lavorazione?
Nella nostra esigenza condivisa di raccontare una Gaza diversa volevamo concentrarci sulla quotidianità, seguendo un po’ le linee di Suite Habana di Fernando Pérez. Abbiamo cercato di fondere il linguaggio del documentario con quello della fiction. Quella di sceneggiare una giornata tipo mettendo in successione un intero arco narrativo è stata un po’ una scommessa. Il nostro è stato un lavoro collettivo con possibilità di sperimentazione. Direzioni diverse per riuscire a crescere nel linguaggio.
Come avete impostato la sceneggiatura e come avete scelto i personaggi?
Ogni personaggio aveva delle azioni che abbiamo prima scritto e poi girato una volta trovato il posto adeguato. Ci siamo presi un periodo di osservazione per conoscere i personaggi, le loro vite e una volta individuati quelli giusti abbiamo sceneggiato.
Quel campo di calcio che sa tanto di metafora…
Il calcio è un po’ la metafora della vita. Il calciatore che entra nello stadio distrutto, ma subito dopo si mette ad allenare i ragazzini non è che raffigurazione di una rinascita.
Giuseppina Genovese