Buffalo '66, un giorno nel mondo bizzarro di Billy Brown

Un giovane uomo è appena uscito dal carcere e, seduto su una panchina innevata, ripensa  al luogo che ha appena lasciato, accompagnato da una musica mesta e colori lividi: con un attacco così, è facile presagire che il film prosegua su queste note, prospettando un drammone di cui l’ometto sarà parte integrante.
E tuttavia proprio questi presenta un dettaglio curioso: due stivaletti rosso fiamma campeggiano ai piedi dell’intirizzito Billy Brown, il quale, ben presto, lascia la panchina per dirigersi verso il carcere, alla ricerca forse di un riparo migliore.
                                                                                                 
Ma contro ogni attesa Billy non cerca un riparo: alla guardia chiede infatti di poter usare il gabinetto, e, al rifiuto di questa, inizia a vagare ansiosamente, in una ricerca che lo occupa per i successivi 15 minuti.














Già dall’input il film si preannuncia quindi non convenzionale: un detenuto che appena uscito di galera si preoccupa di trovare un bagno sicuramente non è un motivo consueto in un film che s’era presentato con tutt’altro tenore. Nel prosieguo della storia altri aspetti compaiono presto a connotare la vicenda in modo singolare: mentre cerca il bagno, Billy s’imbatte in una tornita ballerina di tip-tap, che finisce col rapire per fingere davanti ai genitori di aver vissuto all’estero con sua moglie anziché stare in prigione.
In carcere Billy ci era finito 5 anni prima, dopo aver perso una scommessa di football. Una volta uscito, è più che mai determinato a uccidere il giocatore che aveva sbagliato il tiro decisivo, per poi spararsi a sua volta a conclusione di una vita fallimentare.
Layla, la ragazza rapita, è all’oscuro di questo progetto ma nel corso della giornata finisce col seguire Billy di sua spontanea volontà, assecondando i suoi bruschi cambiamenti d’umore e le sue spacconate come un’ombra silenziosa e fin troppo condiscendente.
I personaggi sono tipicamente indie, caratterizzati da comportamenti sopra le righe e da un abbigliamento iconico: Billy veste come un piccolo malavitoso, giacca in pelle e jeans aderenti oltre ai succitati stivaletti rosso fiamma, mentre Layla indossa un vestito leggero dal taglio fuori moda, che ne mette in rilievo la figura pienotta. Il resto dei personaggi completa l’ambientazione grottesca, col miglior amico di Billy, un ragazzo lievemente ritardato da lui chiamato “tonto”, il padre che è un cantante fallito di cabaret, la madre (una fantastica Anjelica Huston) che conosce a menadito le partite dei Buffalo ma dimentica che il figlio è allergico ai dolci che gli offre, e c’è persino un cameo di Mickey Rourke, che impersona un freddo e compassato bookmaker.















Tutte queste persone compongono l’universo di Billy Brown, che sempre più, nel corso della giornata, si rivela agli occhi di Layla come una persona sconfitta e che, proprio per questo, si accanisce su un progetto omicida che considera uno sbocco dignitoso per una vita infelice.
Una vicenda così non viene dipinta tuttavia con i colori del dramma, ma esso rimane quasi sullo sfondo lasciando in primo piano la vena comico-grottesca, impersonata da soggetti non convenzionali e dall’equilibrata alternanza tra scene serie e momenti umoristici; questi ultimi sono generalmente rivolti a Billy, e lo sferzano con sottile crudeltà: viene citata (e mostrata) più volte in sua presenza la partita che ne aveva decretato la rovina, specialmente da sua madre, che tuttavia ne è del tutto inconsapevole. A tutto questo si accompagna una messa in scena molto personale, che sfrutta espedienti tecnici ordinari per caricarli di un significato innovativo.


                                                                                                                     


L’immedesimazione dello spettatore è anche alla base di due scene molto singolari, in cui un personaggio, estraniandosi dalla storia, inizia a cantare (il padre di Billy) o a ballare (Layla) illuminato da un “occhio di bue” che non esiste se non nella sua immaginazione; anche così la regia non fa che infierire crudelmente su questi personaggi, ironizzando in maniera sottile sulle loro aspirazioni frustrate.
Tuttavia, a parte questi “sbandamenti”, il film si presenta senz’altro come un viaggio nella mente di Billy, e questo è reso evidente da tutti quegli espedienti che, nel bene e nel male, lo rendono il punto focale della vicenda, esplicitandone pensieri e sensazioni e sfruttando in maniera inconsueta gli strumenti della messa in scena: talvolta la ripresa avviene dall’alto, come se il personaggio diventasse il protagonista di un documentario su se stesso, girato con piglio scientifico; inoltre per tutto il film le scene presentano colori così saturi che sembrano girate da una vecchia cinepresa, e questo le rende ulteriormente dimesse, coerentemente col suo anti-eroe.
Da tutto ciò deriva un’atmosfera a metà tra il malinconico e il comico-grottesco, che, a cagione della sua compattezza, riesce anche a sorprendere lo spettatore con momenti inattesi di tenerezza, man mano che Billy depone la sua maschera e decide timidamente di rivelarsi al suo bistrattato angelo custode, oltre che allo stesso spettatore.

Simona Baltieri
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