Fratello John, sorella Mary, le nuove avventure semiserie dell’operatore sociale precario Mauro Eliah

Mauro fa l’operatore sociale precario a Napoli. Capirai è tutto un programma. Coordina un progetto per l’accoglienza dei rifugiati. Si incazza volentieri, perchè questo è un mondo difficile e ti tocca dire le cose come stanno ma anche no, e devi essere duro senza perdere la tenerezza, che bisognerà pure farla funzionare qualche cosa prima o poi. Intanto è rosso fisso, Peppe ‘o barista, pulisce via lo stress dal bancone, il caffè è buono assai e l’arbitro è sempre uno scornacchiato. Per starsene a cuore a cuore con la donna sua, a Mauro gli è toccato farsi prestare i soldi dalla sorella, che poi troppo lontano non ci è mica andato. Sono mestieri che si fanno per vocazione questi. Lo sanno tutti nel Bel Paese e i confederati partenopei lo sanno ancora di più.

Dal Terzo settore in fondo, ma in fondo in fondo, proprio all’ultimo, Mauro, io narrante ed alter ego dell’autore, torna a raccontarci le civetterie della politica e degli amministratori, le arie dei colleghi esaltati e svampiti, i morsi letali del pescecane burocratico, il viaggio faticoso di chi è accolto e di chi aiuta, in un tempo che non passa mai e sei sempre al punto di partenza.

È certo che l’assistenza chiama a se una certa organizzazione e il rispetto di alcune regole da parte di tutti. Ma cosa parliamo a fare se continuiamo a considerare la questione dell’integrazione come altro da noi? E in che modo possiamo sostenere davvero queste persone? Facendole sentire tali, favorendone l’autonomia, coltivando un poco di empatia e di gentilezza per la battaglia che stanno combattendo. Entrando nelle loro vite, pelle a pelle, nelle storie di miseria, persecuzione, violenza, fame, che li hanno portati fin qui. Che i confini nazionali non vincano sulle individualità, che si impari a lavorare sulla contingenza, restituendo loro dignità, uno ad uno. Aprendo un varco, nella costruzione della speranza e del desiderio. A cominciare dalla parole, che quelle sono importanti, pure come i fatti. Distinguere, capire, fare chiarezza, metterci la faccia, tentando di abbattere ogni dannata classificazione, sopravvivendo alla guerra dei suffissi. Obiettivi di coerenza da cui non si dovrebbe mai prescindere. Rifugiati, profughi, richiedenti asilo

Ehlardo li chiama per nome, pure se il nome non è quello vero, pure se John e Mary non sono fratelli e magari non esistono neanche, o forse sì. Si sono conosciuti e amati in Libia e sono diventati genitori di un bambino nato in Italia dopo uno sbarco di fortuna.  Hanno incontrato Flower che in Nigeria, faceva la parrucchiera e adesso è troppo incinta e troppo ribelle. Tutti prendono la parola e dicono di se e le tracce si alternano, in stile diretto e colloquiale, agitando un coro pittoresco e polifonico che mentre gesticola, mischia la testimonianza alla confessione aperta, fuori dai denti.  Intanto la parata delle belle intenzioni e delle casse scassate pompa fuori lo svuotamento di senso a ogni iniziativa. Contrattazioni, accordi, intrallazzi, manodopera in braccio ai caporali. Stagisti a gratis. Un fiorire disordinato di associazioni che manco loro sanno perché. La politica del non fare e la serpe della speculazione. L’esercizio infernale della diplomazia, che dovrebbero andare tutti a morire ammazzati, ma non glielo puoi dire, l’assenza di (in)formazione, l’obbligo al male minore.

L’armata brancaleone, fa le tarantelle e suona i tamburi, ci mette il nome per la mensa ma non caccia i soldi, chiacchiera ma c’ha la domestica sottopagata che stira le mutande. E buttiamola in caciara, va tuttobbene, ci mancherebbe. Tanto poi vediamo. Una galleria grottesca di individui e sette, consorzi pseudosolidali e folcloristici. Un esercito di parianti, di progetti scannati sull’altare sacrificale dell’incompetenza e della miopia. Ornella wonder woman del foro, Sabrina tirapiedi in gonnella, Mohamed che quando vede le brutte si sparpaglia causa impegno inderogabile.

Che puoi farti il viaggio della speranza che ti pare, ricostruirti una degna esistenza, tirare finalmente il fiato. Sempre un migrante resti. Vinto da un participio presente che ti marchia al fuoco del politicamente corretto e che non passa mai. E facciamola finita. Non siamo fratelli e sorelle di nessuno, non siamo tutti e tutte, al più tutti, al più fratelli. Italiano, aimè, lingua maschia, che con l’inglese, per carità, solo figuracce.

Un saggio che è al contempo romanzo e documento di denuncia, riflessione interna al linguaggio e alla deformazione mediatica. Un invito a non lasciarsi strumentalizzare. Confidenziale, pervasivo, resistente e infinitamente ironico. Tutto merito dell’aggravante napoletana.

Erika Di Giulio

Fratello John, sorella Mary
Autore: Marco Ehlardo
Edizioni: Spartaco Editore, 2016
pp.172


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