Solo un piccolo particolare


Click.
-Fermati Tobia! - Disse il vecchio Giacomo al nipotino che camminava con lui in cerca di funghi.
-Perché nonno? - Chiese il piccolo che guardava il vecchio dal basso verso l’alto in attesa di una spiegazione che tardava, invece, ad arrivare.
Il vecchio rimase immobile e anche se il sole cominciava ad illuminare il volto segnato dal tempo e dalla fatica, questo si faceva sempre più scuro. Più pensoso.
Partiti presto dal paese per non farsi seguire dagli astiosi del posto, avevano deciso di prendere il “sentiero della gola”. Il meno battuto di tutti e quello più interessante per il facile accesso alla diga che sovrastava la valle dove sorgevano in sequenza sette villaggi. La gola era rocciosa, ma per giungervi si doveva passare per una mezza collina detta la “rognosa” perché non vi cresceva neanche un filo d’erba. Terra dura e aspra, fatta di sassi grandi e terreno grigio e brucoloso, che poco si accostava alla morbida zolla che Giacomo calpestò. Comprese subito che significava solo una cosa, che ormai credeva appartenesse al suo passato. Al tempo della giovinezza, finita presto a causa della guerra.
Con lo sguardo fisso a terra e respirando in maniera profonda, cercò di fare chiarezza dentro di sé. Voleva evitare danni irreparabili. Mille pensieri. Mille scenari. Un solo attimo. Una partita a scacchi dove una mossa sbagliata significava perdere tutto.
Disse fra se – ragiona con semplicità. Salva più che puoi.
– Tobia, ascolta il nonno- disse Giacomo in tono amorevole- il nonno è vecchio e stanco e la memoria gli fa sempre un po' di scherzi. Mi sono dimenticato la mia pipa ed il trinciato. Vai a casa dalla nonna a prenderli.
Ma nonno… è lontana casa. E’ già tanto che camminiamo-fece lamentoso il piccolo con lo sguardo un po' imbronciato, dondolando con moto rotatorio le braccia.
Lo so. Hai ragione, ma tuo nonno è vecchio e stanco e sai anche quanto gli piace fare una fumatina dopo due funghetti alla brace. Per favore vai a prendermi queste cose.



Va bene- fece triste il bambino che sapeva quanta strada lo attendeva. – Però aspettami, non ti muovere.
Tranquillo. Non vado da nessuna parte. Disse il vecchio triste con voce strana, che non copriva bene la sua commozione. – Mi raccomando, prima di tornare, dai un abbraccio forte alla nonna e dille che le voglio bene. Uhm uhm,- mugolò il ragazzino annuendo.
Fece per partire di corsa, ma Giacomo lo fermò con un grido- Tobia. Cammina solo sui sassi. Non toccare la terra finché non esci dalla gola.- Tobia prese a correre, mentre Giacomo, senza voltarsi, ascoltava il rumore dei ciottoli che scivolavano e franavano sotto i piedi del giovane. Ascoltava il gioco di passi che il nipote si era inventato per ingannare la noia del viaggio di ritorno. Un salto, un commento, un siii, tutto sempre senza toccare il suolo. Come aveva detto il nonno.

Giacomo intanto rimaneva immobile ad ascoltare i suoi pensieri. Stranamente i viaggi della mente ci portano in luoghi che non si sa perché, sembrano non avere niente di congruo. Poi alzò la testa di scatto, quasi come si fosse risvegliato da un brutto sogno. Un ricordo. Il rumore di ciottoli. La festa al castello. La festa!
Quel suono di sassi che sdrucciolavano e scricchiolavano sotto i passi veloci del piccolo gli richiamarono, vivo, il rumore degli zoccoli dei cavalli che trainavano i carri, pieni di botti di vino, che scivolano su ruote di legno e ferro. Ferro su pietra per la strada ripida che portava al vecchio castello diroccato, che ogni anno si rianimava evocando, come spirito antico, i fasti del medioevo. Quei vicoli che per un solo giorno all'anno, l’equinozio d’autunno, si riempivano di vita. Grida, canti, ebrezza alcolica. Senza pensieri. Senza memoria. Quello che succede al castello, resta al castello! Vertiginose spirali di gioia che salivano verso le luminose costellazioni, che silenziose guardavano indifferenti le piccole gratificazioni, della piccola gente. 
Tutte le feste erano diverse e pure uguali, tanto che i ricordi si confondevano. Gli anni si intrecciavano in ricordi piacevoli, ma dei quali nessuno si interessava troppo. Solo che Giacomo, in uno dei saluti all'estate mentre i boschi si dipingevano dei colori accesi dell’autunno, ripensò ad una sera diversa. Ad una persona diversa.

Era piovuto poco prima dell’inizio dei festeggiamenti, una occasione di riposo per chi lavorava nei campi. Una pausa forzosa, ma sempre ben accolta specie se poi si può festeggiare. Quell'acqua che era scorsa per i vicoli quasi fosse nuova linfa, sembrava rianimare quel gigante di sassi ormai da tempo sopito. La gente fluiva come sangue. Botteghe e baracchini si aprivano come occhi assonnati, velati di luce. Le solite chicche, i soliti giochi, i soliti mercanti che vociavano per richiamare l’attenzione degli smarriti avventori.
 Tutto come sempre, ma qualcosa stonava con le consuete attività. Una insegna di legno inchiodata male sull'architrave della porta di uno scantinato messo peggio della stessa insegna. Una scritta di vernice gialla: Madame Luna. Quel nome stupido. Ridicolo scialbo e fintamente esotico, che terminava con una falce di luna giallo intenso, quasi a richiamare qualcosa di celeste. Di divino e magico. Vestita come una fattucchiera di cui si legge nei libri delle elementari (quando le si facevano) o come una strana strega del bosco di cui si narra spesso nelle favole intorno al fuoco, che i nonni raccontavano a bambini affascinati. Chiusa in un tendone viola, dietro ad un tavolo stava la megera. Tutta apparenza. Capelli folti, ricci e neri. Rigonfi sulla sommità tenuti a bada da una fascia rossa. Orecchini a goccia con pietra colore sangue di drago incastonata in una montatura di scadente oro giallo. Vestito bianco lungo con maniche a tre quarti e grossi bracciali d’osso che penzolavano sui polsi. Sul tavolo troneggiava l’immancabile sfera di cristallo adagiata su una sottile trina di colore bianco.
Unghie lunghe da rapace massaggiavano l’aria intorno alla sfera.
Giacomo entrò in questo morbido antro artificiale, riempito di aria pesante, per un solo motivo: la fattucchiera, chiusa nella tenda l’aveva invitato ad entrare chiamandolo per nome. Giacomo gli si fece di fronte e le chiese come sapesse il suo nome. La divinatrice sorrise e rispose in maniera evasiva: - so molto di più del tuo nome. Fece lei lapidaria senza alzare nemmeno lo sguardo. Riprese – tu non mi conosci, ma io ti conosco molto bene. A sì, fece giacomo spavaldo- chi ti ha parlato di me.
Non chi, ma cosa. Giacomo si fece più attento e guardingo. Non capiva quello che stava dicendo quella donna, che però, certa dell’attenzione dell’uomo disse: 18 lune. Prosegui sul sentiero duro. Non lasciare che i tuoi passi affondino sul morbido o….
O…- chiese Giacomo vistosamente arrabbiato
O il cielo si farà terra e la terra cielo.
Maledetta pazza. Disse Giacomo turbato e fuori di se- Vattene da questo posto senza disturbare nessun altro. Non farmi tornare.

Lei non rispose, si limitò ad alzare la testa e ad accennare un sorriso diabolico che le storceva il volto. Poi, senza guardare, preso un pezzetto di carta cominciò a strapparlo: 1, 2,3…7, 10. Poi, stringendo i pezzetti tra indice, medio e pollice, con un gesto secco del polso e della mano lanciò in aria i pezzetti di carta che caddero volteggiando come coriandoli. Danzarono in maniera strana. Pesante. ricadendo veloci, parte sul tavolo e parte per terra
Di lì a poco anche lui avrebbe danzato in aria. Chissà se avrebbe fatto male. Chissà se se ne sarebbe accorto. Giacomo tese l’orecchio. Tobia non si sentiva più. Le pietre tacevano. Poteva andare. Infilò la mano sinistra nella tasca della giacca marrone rivoltata di fresco. Tirò fuori la pipa con un gesto consumato dall'esperienza: lento e preciso. Poi con la destra prese dal taschino interno il sacchettino di velluto logoro intriso di sapore di fumo. Con il pollice e l’indice infilati assieme guadagnò una generosa presa di trinciato forte. Ricetta personale, ripassata con nella padella con un goccio di vino bianco prima dell’ultima essiccazione. Infilò il tabacco nella pipa. Lo pressò con il pollice che forzava contro la mano un po' tremolante. Dalla tasca destra prese i fiammiferi. Si infilò la pipa in bocca che indugiava sempre su quella macchia marrone di nicotina vicino al labbro inferiore. Un gesto secco. Un lampo che scemava. Un paio di boccate e la testa fu subito avvolta da una magica nuvola di denso fumo. Senza mai togliere la pipa dalla bocca, prendeva aria buona che trasformava subito in acre nebbia.
Quando ormai il sole era già abbastanza alto e il tabacco era ormai quasi finito, fece un ultimo lungo respiro. Mandò indietro la testa chiudendo gli occhi e…
CLICK!

Ivan Maurizzi




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