Fabio ed Enzo, Adele e Silvana: quattro giovani napoletani ripresi nella loro vita, tra illusioni e disillusioni, sogni e realtà, cinismo e fatalismo. Dice Giovanni Piperno che “chi nasce a Napoli possiede già il senso della catastrofe”, e per questo bisogna imparare a resistere nonostante tutto, maturare una sorta di resilienza fuori dal comune. “Napoli è l’Italia al cubo”, e viene resa in modo molto più desolato del 1999, quando i due registi ci hanno raccontato gli stessi ragazzi, dodicenni i maschi, quattordicenni le femmine, nel documentario Intervista a mia madre. Sono stati filmati in seguito nel 2012, ed ora li rivediamo in una sintesi di un’ora e mezza carica di emotività.
Fabio sognava di fare il calciatore, ma con sano senso della realtà sapeva anche di essere poco dotato. Gli occhi ingenui e furbetti, davanti a chi gli dice che volere è potere, risponde che volere è mezzo potere.
Ora è disoccupato, un bel ragazzo con tanti tatuaggi, e lo sguardo che riflette la perdita dell’innocenza. Sono gli occhi più tristi dei quattro improvvisati, sapienti attori.
Enzo, da piccolo, canta nei ristoranti con il padre che strimpella le canzoni melodiche di Merola e Nino D’Angelo. Altro che i fenomeni esibiti il sabato sera nella nostra televisione! Lui è vero e il classico della canzone napoletana, Passione, che lui interpretata, sia da ragazzino che da adulto, è a dir poco struggente.
Adele ci informa che ha ripetuto quattro volte la prima media, non andava d’accordo coi professori, rispondeva male, le piaceva solo ballare. Il suo sogno da adolescente: diventare modella, mentre esegue numeri da lap-dance, prima come una Lolita partenopea, poi come giovane donna. Il suo “cosa farai da grande” diventa l’esibizione nei locali notturni come secondo lavoro.
Silvana è stata abbandonata dalla madre e vive con il padre ex-carcercato. Sembra, insieme ad Enzo, la più forte di tutti, quella che lavora di più: il fidanzato agli arresti domiciliari, la madre malata, ritrovata e poi di nuovo perduta per le loro incomprensioni, un fratello in carcere. Vagheggia il matrimonio come massima ambizione.
Il titolo del film si riferisce all’augurio, più frequente al sud, “Tante cose belle”: un augurio che può suonare amaro in una città cambiata in peggio dal 1999 ad oggi. Le riprese di quindici anni fa, infatti, risalgono a un periodo di grandi speranze per Napoli che sono state deluse ad una ad una, come quelle dei nostri quattro preadolescenti, ora diventati giovani adulti. Non calciatori, né modelle, ma persone che si barcamenano nel cercare di vivere la loro vita e non tenerla semplicemente a bada: più consapevoli, sicuramente. A questo è servito per loro il lungo lavoro di riprese, e non è poco. Perché nel documentario, che ha il pregio della presa diretta sulla realtà, senza ipocrisie e fantasticherie, non ci possono essere i miracoli a cui tanto cinema di finzione ci ha abituati.
Margherita Fratantonio
Fabio sognava di fare il calciatore, ma con sano senso della realtà sapeva anche di essere poco dotato. Gli occhi ingenui e furbetti, davanti a chi gli dice che volere è potere, risponde che volere è mezzo potere.
Ora è disoccupato, un bel ragazzo con tanti tatuaggi, e lo sguardo che riflette la perdita dell’innocenza. Sono gli occhi più tristi dei quattro improvvisati, sapienti attori.
Enzo, da piccolo, canta nei ristoranti con il padre che strimpella le canzoni melodiche di Merola e Nino D’Angelo. Altro che i fenomeni esibiti il sabato sera nella nostra televisione! Lui è vero e il classico della canzone napoletana, Passione, che lui interpretata, sia da ragazzino che da adulto, è a dir poco struggente.
Adele ci informa che ha ripetuto quattro volte la prima media, non andava d’accordo coi professori, rispondeva male, le piaceva solo ballare. Il suo sogno da adolescente: diventare modella, mentre esegue numeri da lap-dance, prima come una Lolita partenopea, poi come giovane donna. Il suo “cosa farai da grande” diventa l’esibizione nei locali notturni come secondo lavoro.
Silvana è stata abbandonata dalla madre e vive con il padre ex-carcercato. Sembra, insieme ad Enzo, la più forte di tutti, quella che lavora di più: il fidanzato agli arresti domiciliari, la madre malata, ritrovata e poi di nuovo perduta per le loro incomprensioni, un fratello in carcere. Vagheggia il matrimonio come massima ambizione.
Eppure la colonna sonora A storia e Maria (Franco Ricciardi) di queste persone che guardano con disinvoltura in macchina e si fanno personaggi, è di un’allegria e di un ritmo irrefrenabili, tanto che vien voglia di ballare insieme ad Adele.
I due autori hanno scelto quattro storie “ordinarie”, straordinarie quando ci si avvicina di più alla quotidianità di ciascuna. Perché c’erano tutti gli ingredienti per la devianza. Ma, Fabio, Enzo, Adele e Silvana, come dice Agostino Ferrente, “potevano contare su un’arma in più per difendersi dalle tentazioni di scorciatoie spesso intraprese da familiari prossimi, e per provare a resistere in generale: la loro ‘bellezza’. E l’hanno usata qualche volta nuotando contro corrente, spesso lasciandosi trascinare pur di non affogare, ma sempre con dignità e onestà”.
Il titolo del film si riferisce all’augurio, più frequente al sud, “Tante cose belle”: un augurio che può suonare amaro in una città cambiata in peggio dal 1999 ad oggi. Le riprese di quindici anni fa, infatti, risalgono a un periodo di grandi speranze per Napoli che sono state deluse ad una ad una, come quelle dei nostri quattro preadolescenti, ora diventati giovani adulti. Non calciatori, né modelle, ma persone che si barcamenano nel cercare di vivere la loro vita e non tenerla semplicemente a bada: più consapevoli, sicuramente. A questo è servito per loro il lungo lavoro di riprese, e non è poco. Perché nel documentario, che ha il pregio della presa diretta sulla realtà, senza ipocrisie e fantasticherie, non ci possono essere i miracoli a cui tanto cinema di finzione ci ha abituati.
Margherita Fratantonio