ReCuiem: la fatica di essere mamma e donna insieme, intervista esclusiva a Valentina Carnelutti

Al 31° Torino Film Festival abbiamo incontrarto Valentina Carnelutti che ci ha parlato della sua prima opera da regista: ReCuiem.

Come nasce ReCuiem?
ReCuiem (mi piace che la C sia maiuscola, una sorta di errore, di scritta infantile, un segno) è nato da un racconto che ho scritto una decina di anni fa. Mi interrogavo su cosa sarebbe accaduto alle mie figlie se io fossi morta, una mattina mentre a letto le ascoltavo giocare e parlottare. Il racconto negli anni ha continuato a produrre immagini. Tornavano, si componevano in maniera sempre più precisa. Finché ho sentito che la forma più esatta per raccontare quella storia non era quella scritta ma un film breve.
Così ReCuiem è stato concepito. La gestazione ha richiesto tempo, ho pensato molto prima di decidere, volevo che tutto maturasse per bene, non volevo cogliere nulla prima del tempo. Volevo poter scegliere ed essere libera. La nascita è stata un lavoro collettivo. Ho scritto, prodotto e diretto il film, tre cose che non avrei potuto fare se non avessi trovato le persone che ne condividevano con me i presupposti. Persone eccellenti che hanno fatto ciascuna il proprio lavoro con entusiasmo e cura, che si sono fidate di me e della sceneggiatura.


ReCuiem è il tuo primo corto da regista dopo una lunghissima e gratificante carriera di attrice. Cosa hai portato della Valentina attrice dietro la macchina da presa?
Il lavoro di attrice è parte di un ingranaggio, che non ha senso se si considera un solo elemento. Siamo in tanti a ‘fare il film’, uniti da una storia, una sceneggiatura, una regia, che in qualche modo è la questione sulla quale tutti siamo d’accordo, alla quale tutti abbiamo aderito.
Ho cercato di scrivere e realizzare un film che fosse credibile, la cui storia per quanto al limite del verosimile potesse scaturire da pensieri sentimenti e azioni reali dei personaggi. Ho cercato di non forzare mai la realtà, di non incastrare gli attori chiedendo loro di fare cose che le circostanze non prevedevano. Sono stata maniacale nelle scelte: delle parole, dei colori, dei tessuti, del cibo che mangiano in scena, della qualità dei fiori che raccolgono, degli oggetti con cui hanno a che fare.
Ho cercato di fare in modo che gli attori avessero tempo di costruire relazioni che li aiutassero in scena, che avessero a che fare l’uno con l’altro in circostanze che tornassero utili come memoria per quel che avrebbero dovuto interpretare. Ho impiegato del tempo per guadagnare la loro fiducia e perché ne costruissero una reciproca. Ho cercato di fare in modo che il set fosse un luogo pulito da interferenze, concentrato e salvo. Riparato da sguardi indiscreti, giudizi e pregiudizi che sono a mio parere un impedimento alla realizzazione di una scena. Ho cercato di essere sincera e di sottolineare le cose buone che trovavo perché prevalessero su quelle che funzionavano meno. Ho parlato con ciascuno in maniera diversa, individuale, con calma, evitando di riempire lo spazio con troppi discorsi, lasciando dei vuoti/silenzi/tempi che potessero accogliere la realtà, i rapporti reali. Ho chiesto che la troupe fosse al servizio di questi rapporti e di quello che producevano, pronta a riconoscere quando questi coincidevano con quello che stavamo cercando, che era scritto nella sceneggiatura. Ho cercato soprattutto di ascoltare quello che il set (attori, tecnici, temperatura, luce, imprevisti e sorprese) metteva a disposizione date le circostanze stabilite, e di lavorare perché quello andasse incontro al film che avevo scritto e preparato. Ho cercato di restare aperta e in ascolto, di distinguere la verità dall’idea che mi ero fatta della ‘verità’.






In ogni inquadratura, colore, suono, profumo possiamo percepire quanto ReCuiem sia un film molto intimo e personale. Quanto ha influito il tuo essere diventata mamma giovanissima nella stesura della sceneggiatura?
Sono mamma, e credo, indipendentemente dall’età in cui ho concepito le figlie, che la convivenza con loro mi abbia regalato un modo di guardare il mondo, di interrogarmi sulle cose, diverso da quello che avrei avuto se non ci fossero state. Si tratta di guardare e rispondere senza barare. O meglio, di cercare di guardare e rispondere senza barare.
E’ vero che è intimo per me questo film. Ci sono io, ci sono le mie figlie ma ci sono anche altri figli che ho incontrato, altri genitori. C’è il mio essere figlia anche, e sorella. E donna.
C’è qualcosa di importante per me in questa storia, che riguarda la solitudine di una donna, la soglia, tra l’essere madre e l’essere donna, la ricerca che una donna deve fare per vivere la sua parte di ‘donna’ e non solo di madre toccata dalla fatica. Ecco c’è qualcosa della fatica di essere madre e donna insieme.

Un’intensa interpretazione nel loro candore è quella dei due bimbi. Commovente e tenero il loro atteggiamento nei confronti di una mamma che ai loro occhi appare solo addormentata. Come  hai lavorato sulla loro interpretazione e come hai spiegato  quello che stava succedendo nel corso della storia?
Una parte significativa del lavoro con i bambini è stata la scelta dei bambini. Ne ho visti moltissimi e devo ringraziarli tutti, insieme ai loro genitori, per aver partecipato così generosamente ai provini che sono durati diversi giorni. Scegliere i bambini e i genitori insieme, perché è grazie alla loro complicità e fiducia che ho potuto lavorare liberamente.
Ho tenuto in mente per tutto il tempo della preparazione e delle riprese una frase di B.Pascal che ho letto mentre scrivevo l’ultima versione della sceneggiatura: il sonno dite, è l’immagine della morte. Io dico piuttosto che è l’immagine della vita.
Abbiamo girato il film in sequenza cronologica, la mamma dorme… i bambini si svegliano…
Ho chiesto a tutta la troupe (genitori dei bambini inclusi) di non commentare la posizione della madre, di non commentare in generale, di stare nel presente delle cose che andavamo costruendo via via. Ai bambini non ho raccontato la storia, raccontavo loro le circostanze man mano che si creavano: ora prepari la colazione, ora Emma vi racconta una favola, ora facciamo il riposino… Abbiamo trascorso giornate intere nella casa in cui giravamo, loro avevano la loro stanza, nella quale avevano portato alcuni dei loro oggetti e giocattoli preferiti, il soggiorno con i giochi, Emma passava il suo tempo nel letto, un po’ sveglia a chiacchierare, un po’ ‘dormendo’. Quando abbiamo girato la scena della cena e Emma ha chiesto ad Annetta che cosa avesse mangiato lei ha risposto naturalmente quel che aveva mangiato a pausa e a pausa aveva mangiato quel che era scritto nella sceneggiatura e così ha detto la battuta… non me l’aspettavo ma cose così sono successe di continuo. Abbiamo costruito circostanze capaci di dar luogo naturalmente a quello che era scritto e di sorprenderci al tempo stesso, regalandoci cose che abbiamo potuto accogliere perché abbiamo lasciato loro lo spazio per nascere.

Storia di una famiglia, storia di un amore che vuole vincere sulla morte. Si parla molto di amore materno, poco dell’amore di un figlio che qui domina su ogni cosa. Commovente il personale requiem di questi piccoli. Così come commuove quel forte istinto di sopravvivenza che li porta a badare a se stessi nel corso di una giornata la cui fine si vorrebbe non arrivasse mai. Perché farà male.
Quando muore qualcuno non si sa mai bene cosa dire. E ci si precipita nei luoghi comuni prima di scomparire pur di non sentire il male che fa, il vuoto che lascia, le domande che pone. Il significato della morte sfugge al nostro controllo e la spettacolarizzazione mediatica la muta in un non-senso, distante, ma anche ‘normale’. Ce ne accorgiamo quando ci tocca da vicino: perdere il senso della morte significa in qualche modo perdere il senso sacro della vita. È forse un risultato della secolarizzazione in cui viviamo. Mi piace che il film si svolga in quel territorio incerto di libertà che permette a ciascuno di affrontare l’evento secondo la propria natura. In un tempo naturale, umano, diverso da quello sociale, ufficiale, che chiede la chiamata, la denuncia, la parola. E qui per me i bambini restituiscono al rito la sua funzione di renderla tangibile.

Sei riuscita in modo davvero delicato e vivo a dare immagini a quanto avevi scritto. Ci sarà ora la possibilità di far uscire ReCuiem anche come racconto? 
Perché no? Ci sono anche dei disegni… Grazie per avermi dato la possibilità di parlare del lavoro…

Giuseppina Genovese

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