Storie dal Sud, di miseria e voglia di riscatto: È stato il figlio e Reality

Due film negli stessi giorni, in questa stagione che sta finendo, molto diversi e molto simili tra loro: storie surreali rese con inquadrature realistiche fino agli aspetti più prosaici e meno poetici della vita. Entrambi urlate e sopra le righe; eppure capaci di cogliere i percorsi assurdi della mente. E’stato il figlio di Daniele Ciprì e Reality di Matteo Garrone descrivono due personaggi del sottoproletariato meridionale: il primo è il rivenditore di ferraglia, Nicola Ciraulo, interpretato dal sorprendente Toni Servillo; l’altro è il pescivendolo Luciano Ciotola recitato da un’altrettanto sorprendente Aniello Arena.
Una vicenda è ambientata nella Palermo di qualche decennio fa, e quella di Garrone nella Napoli di oggi. Location colorate, sanguigne, mimeticamente passionali, o per lo più esageratamente spoglie fino allo squallore e all’abbandono, come il cortile dei Ciraulo e la strada verso casa loro, o il palazzo dei Ciotola. E non può mancare la persona over size (in Reality più di una) che chissà quando ha perso l’amore di sé e che comunque rientra a pieno titolo in questa umanità così brutta, così sporca e così cattiva.

Di cattivo Nicola Ciraulo ha un’andatura da guappo, insieme alla rudezza nella relazione con il figlio, che considera un fallito, perché non imita gli atteggiamenti vincenti del suo mondo. Ammira invece il nipote, che del ras di quartiere ha tutte le caratteristiche. Il cuore di Nicola batte forte soltanto per la figlia, la piccola Serenella, che un agguato mafioso gli porterà via gettandolo nella più cupa disperazione. Ma poi c’è il risarcimento dello Stato e con quel che rimane (molto si è dilapidato nell’attesa) compra a sé e alla sua sconclusionata famiglia niente di meno che una Mercedes nuova fiammante. La tenerezza di Nicola sarà ora tutta per lei, per quegli ottanta milioni di macchina che sembrano quasi meritare le attenzioni amorevoli riservate alla figlioletta. Un incauto graffio da parte del figlio allo spasmodico oggetto del desiderio innescherà la tragedia, che conclude una narrazione grottesca, ma a suo modo credibile.

Luciano Ciotola non è un duro, né vuole sembrarlo. Anzi, per far ridere gli altri, non esita a truccarsi da travestito. Ha modi diretti e spontanei, a parte qualche piccola truffa nella quale non eccelle. Vende il pesce in un negozio che dà sulla strada e quasi sulla strada è anche il suo fatiscente appartamento. Una moglie, tre figli e un mare di sottocultura, condiviso con le zie, la madre, ed altri parenti, come lui chiassosi e grossolani. Anzi, tra tutti, lui e la moglie sono i meno volgari, pur aderendo alla stessa visione del mondo. Poi Nicola partecipa ad un primo provino del Grande Fratello; e per un secondo viene chiamato addirittura a Roma. Inizia il suo declino: il pensiero di essere ripreso dalle telecamere (che vogliono essere sicuri di lui per il grande reality) si fa  via via più ossessivo. Vende la pescheria, regala  i suoi miseri averi, mentre la moglie si dispera, di fronte al marito che perde sotto i suoi occhi  il contatto con la realtà. L’apparizione televisiva è l’unico progetto per il nostro povero Luciano e la vita vera perde sapore, consistenza. L’amore per i figli e per la moglie sfumano, mentre lui diventa sempre più dipendente dal sogno, che i parenti alimentano nella speranza di essere contagiati dalla sua realizzazione. 

È il forte desiderio di riscatto a muovere la volontà di questo strambo personaggio, così come per Nicola Ciraulo e poco importa se Luciano si propone di raggiungerlo attraverso la televisione e Nicola con un oggetto materiale. Le due storie sono evidentemente metafore della perdita di sé, nell’inseguimento di una scialba divinità: quarant’anni fa era il denaro simboleggiato dalla mercedes, oggi impadronirsi dello schermo. Una lettura sociologica può farci riflettere su quanto siano cambiati i miti superficiali negli ultimi decenni, ma dal punto di vista psicologico poco cambia. Apparire su una macchina lussuosa, ridicola se si è così socialmente deprivati, o in tv, nonostante non si sappia l’italiano, è un po’ la stessa cosa. Se il primo film condanna il consumismo e il secondo la cultura dei programmi spazzatura, i protagonisti si somigliano, nella loro totale perdita del senso del quotidiano. Figure fragili, che gridano la loro inadeguatezza alla vita, maschere bizzarre di una sofferenza che non è facile ascoltare. Inserite in racconti paradossali, che poi, si sa, l’eccesso è la solita lente di ingrandimento capace di  amplificare la normalità che non si vuole vedere. 

Sarà per questo che i registi Ciprì e Garrone hanno voluto ambientare queste due stravaganti narrazioni in ambienti così esageratamente popolani. Toccare gli strati più bassi della società, come faceva la letteratura dell’Ottocento, quella di Zola, per esempio, che amava le descrizioni persino degli odori (l’alito del marito ubriaco di Gervaise in L’Assommoir, l’olezzo della biancheria d’altri che Gervaise annusa compiaciuta prima di metterla a lavare,  nell’unico periodo di relativo benessere, prima di precipitare nell’abisso del suo stesso alcolismo). Anche in questi due film sembra di sentire l’odore della miseria: il pesce squartato da Luciano, il sudore delle ascelle di Nicola, che non ci vengono mai risparmiate dalla sua mise (canottiera e peli in bella vista).

Zola, però, scriveva per denunciare le tristi condizioni materiali di allora. Il sospetto, oltre modo scomodo, è che la rappresentazione deforme della povertà possa essere un alibi, oggi, una strategia, per confezionare con originalità messaggi ad un pubblico colto. Si ride, soprattutto nelle prime scene, o si sorride; da una distanza che è quella della superiorità intellettuale, ed economica. Con il rischio che poi, quando dalla farsa si passa al dramma, ci si senta un po’ traditi. A meno che, da subito, non si riesca a leggere sui volti di Nicola e di Luciano una tensione umana che davvero ci accomuna, e che ce li rende vicini, pur nella loro pacchiana diversità. 

La ricostruzione meticolosa di ambienti e personaggi, attraverso dettagli e visioni d’insieme, così smodatamente kitsch, può essere ripagata, sì, da un pubblico attento che sappia apprezzarla; ma  può, alla stessa maniera, essere ammirata solo per competenza registica e, fuori da quella sala, cancellata da una qualunque prossima visione, di qualità minore, ma di più facile accessibilità.

Margherita Fratantonio










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