A Dangerous Method (2011) di David Cronenberg

Grazie a David Cronenberg, o forse alla pièce teatrale The Talking Cure di Christopher Hampton, sceneggiatore anche del film, o forse ancora al romanzo di John Kerr (A Most Dangerous Method), a cui si ispira l’opera teatrale...insomma, grazie a chi ha voluto sottolineare la bellissima citazione di Jung: “Solo il medico ferito guarisce”. Anche se poi nel film è diventata “Solo il medico ferito può curare un paziente”. La differenza tra il guarire e il curare non è una sottigliezza, ma il dolore dell’analista è fondamentale quando ci si dà il permesso di entrare nella psiche altrui. 

Di ferite comunque se ne vedono tante in questa narrazione, che inizia col grido straziante di Sabina e termina con la notte dell’anima di Jung. Sbaglia Paolo D’Agostini (La Repubblica del 30 settembre) a definire la conclusione di A Dangerous Method “una scorciatoia hollywwodiana”; sbaglia di grosso, perché la forte depressione che Jung ha attraversato, concedendosela, dopo la rottura con Freud e prima della guerra, è all’origine stessa della psicanalisi junghiana, o, come lo correggeva Freud, della psicoanalisi, che per lui non era la stessa cosa.
Quella visione, del fiume di sangue che tra l’Europa del Nord e le Alpi, travolge ogni cosa fino a tingere di rosso il mare, non è una trovata cinematografica. Bensì, il contatto profondo con l’inconscio, a rischio del disturbo mentale, che fino al 18/19, Jung ha voluto sperimentare. La lotta tra il lasciarsi dominare dalle immagini e impadronirsene: “Molte volte, in momenti critici, mi ha aiutato il pensiero di abbandonarmi ad un impresa pericolosa non solo per il mio bene, ma anche per quello dei miei pazienti”. Per essere, appunto, un medico ferito che guarisce. Il film si chiude, e va benissimo così, su Carl Gustav Jung solo, angosciato, ferito.
E il film è una storia di ferite, oltre che di attaccamento e tradimento, attrazione e separazione, abbandoni. L’amore passionale che è diventata la cieca gratitudine di Sabina verso Carl; l’investimento affettivo tra Freud e Jung - nelle lettere si definivano senza remore padre e figlio; l’amore di Emma per il marito. Sui tradimenti poi si potrebbe scrivere molto di più. È sempre lui il traditore: Carl Gustav Jung. Verso la moglie (avrà una relazione con la sua collaboratrice, Toni Wolff, per quarant’anni!), verso Sabina, perché l’abbandona, ma soprattutto per la  negazione ostinata della loro storia, fino alla sua cancellazione nell’autobiografia, dove del resto è assente anche Toni.  Quando scrive a Freud, parla di Sabina solo come richiesta di consiglio, prima, come successo terapeutico, ostentato, dopo. E negherà, con lui, per confessare solo in maniera assai tardiva. Pare addirittura che nella diagnosi sul caso (presentato ad un convegno nel 1907 ad Amsterdam) Jung abbia commesso un clamoroso lapsus, scrivendo il cognome di Sabina sbagliato. Spielreim significa “gioco pulito” (spiel, gioco; rein, pulito). L’omissione di una e (Spilrein) sarebbe un’ulteriore riprova della scarsa trasparenza di Jung.
E la grande delusione di Freud per le “eresie” junghiane, le “pericolose spedizioni” nel soprannaturale, ma non poteva andare che così. L’allievo non avrebbe potuto affermarsi se non con uno strappo, un’emancipazione risoluta dal padre. Sofferta, perché tanto aveva rischiato, anche nella carriera, difendendo le posizioni freudiane osteggiate da tutti. Da parte sua Freud arriva a svenire durante una disconferma del “principe ereditario”, pur di non ammettere il dramma interiore della perdita.
Grazie al film anche per la serietà della documentazione. Moltissimo materiale è tratto da “Ricordi, sogni, riflessioni di Jung”: l’aneddotto, per esempio, del boato proveniente dalla libreria di Herr Professor, proprio nel momento in cui Jung disquisiva di spiritualità e Freud razionalmente negava. Jung dice di sentire qualcosa nel diaframma e prevede un altro scoppio, che puntualmente arriva. “Freud mi guardò stupefatto, senza dir nulla…di qui nacque la sua diffidenza nei miei riguardi…Non gli parlai mai più dell’incidente”.
Grazie per la splendida ricostruzione degli ambienti: più di tutti lo studio di Berggasse, con il mitico divano somigliantissimo, la poltrona originale del Maestro, e tutte quelle suppellettili, che sappiamo lui amava così tanto! Le scene di Vienna sono girate sulle strade che davvero portano nella casa, ora museo, di Freud, fino alle scale e all’ingresso. Il caffè Sperl e i giardini del Belvedere di Vienna sono gli stessi in cui avvenne il primo incontro tra il Maestro e l’Allievo durato tredici ore. La facciata della villa di Jung, quella di Küsnacht, su cui scriverà la famosa frase Vocatus atque non vocatus deus aderit: Cercato o no il dio verrà” (http://www.sandrapetrignani.it/blog/?p=1720), è stata ricostruita di sana pianta! Forse l’eccesso di cura negli ambienti e nei dettagli rende tutto un po’ patinato e didascalico, è vero, con un effetto straniante, non si sa fino a che punto voluto. Un film sicuramente che alcuni appassionati del visionario Cronenberg, ora così rigoroso e sobrio,  non riconosceranno come suo. La ricostruzione d’epoca non ha neppure una piccola sfumatura fuori posto: gli uomini in nero, sempre, le donne in bianco; le figure che si stagliano nitidissime su atmosfere sbiadite, quasi avvolte nel fumo di Freud.
Il problema è che forse c’è troppo in questo film: accostarsi alla vita e al pensiero dei due mostri del Novecento, e farlo anche attraverso la storia intensissima di Sabina Spielrein, ha dovuto per forza accelerare alcuni passaggi. Quello della guarigione di lei, per esempio, che troppo naturalmente passa dalla scompostezza della malattia  alle speculazioni psichiatriche. Sicuramente Cronenberg avrebbe potuto risparmiarci le scene di sesso, che niente aggiungono all’impeto della relazione amorosa e intellettuale, e, soprattutto, che sono l’unica cosa immaginata in una storia con la pretesa, e il merito, del vero. Vedere Jung che frusta Sabina è una dissacrazione superflua di un mito che per il resto ci è già stato raccontato in tutta la  sua umanità, piccinerie comprese. Il bello di questo film, invece,  è proprio la resa dei personaggi (ben recitati da Michael Fassbender, Kiera Knightley, Viggo Mortensen), che con grande fatica, affannosamente e lucidamente, cercano di conciliare il senso della loro missione nel mondo con le loro debolezze emotive.
Sarà A dangerous method, comunque, un’opera che farà ancora parlare molto di sé. Dice David Cronenberg, scherzando: "Credo che tutto il mio cast avesse bisogno di psicoanalisi: prima del film erano tutti nevrotici, ora guardate come stanno bene...". Noi dopo averlo visto siamo molto ammirati; è bello, decisamente, tanto, ed è onesto. Ma, nonostante tutto,  non ci ha preso l’anima, come e quanto è riuscito a fare, otto anni fa, il film di Roberto Faenza.

Margherita Fratantonio




A Dangerous Method
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Christopher Hampton
Cast: Viggo Mortensen, Keira Knightley,
Michael Fassbender, Vincent Cassel
Produzione: UK, Francia, Germania, Canada, Svizzera, 2011
Distribuzione: BIM
Durata: 99 min.
Data di uscita: 30-09-2011
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